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Paolo Borrometi, dopo le minacce di morte: “Vivo perché lo Stato funziona”

“Se io sono qui oggi è perché c’è uno Stato che funziona”.
Non smette di ripeterlo, in occasioni pubbliche e private, il giornalista Presidente di Articolo 21, Paolo Borrometi, dopo l’ultimo attentato sventato grazie all’intervento della magistratura e delle forze dell’ordine.
Paolo, collega e amico, direttore del giornale online “La Spia” e collaboratore dell’AGI (prima da Ragusa, la sua città, oggi da Roma), da ben quattro anni vive sotto scorta, da quando ha subito le prime minacce ed anche un’aggressione fisica da parte di esponenti della criminalità organizzata siciliana.
Pochi giorni fa è emerso che un boss di Cosa Nostra voleva pianificare il tuo omicidio: “dobbiamo colpirlo. Bum a terra”. A firmare la condanna a morte i boss di Pachino, oggetto di diverse tue inchieste. Senza la tempestività di quelle intercettazioni la tua vita sarebbe stata ad altissimo rischio. Quando è arrivata la prima minaccia?
“Nella primavera del 2013, danneggiamenti alla macchina. Poi la scritta, su quella stessa macchina, a caratteri cubitali “Stai attento”. Ero poco attento, invece, a questi episodi a cui avevo dato poco peso. Mi sembrava tutto uno scherzo, ho capito mesi dopo che non scherzavano affatto”.
Le minacce proseguono. Il 16 aprile 2014, un agguato inaspettato nel tuo giardino, dove due uomini incappucciati ti lasciano esanime a terra “perché non ti facevi i fatti tuoi”. Poi il tentativo di bruciarti la porta di casa a Modica. Dopo quelle aggressioni come è cambiata la tua vita?
“Da quel giorno ho maturato la decisione di andare avanti, di non fermarmi, seppur con la spalla fratturata in tre parti e con lividi morali molto peggiori di quelli fisici. Non potevo cedere a quella paura, a quella aggressione. Non avrei solo perso io e vinto loro, avremmo perso tutti. Il tempo mi ha dato ragione: da lì a poco il Comune di Scicli, su cui si concentravano le mie inchieste, è stato sciolto per mafia e l’omicidio di Ivano Inglese, giovane 32enne ucciso a Vittoria è stato riaperto. Insomma, avevo fatto ed avrei dovuto fare successivamente solo il mio dovere di giornalista. Nulla di più!”
Dopo questi momenti duri per te e la tua famiglia, cosa ti ha spinto a continuare, a “non girarti dall’altra parte”, a non mollare?
“La voglia di fare solo il mio dovere, di capire che la mia Terra, la Sicilia, può cambiare solo con l’impegno di tutti, indistintamente giornalisti, magistrati, imprenditori, sacerdoti, insomma: cittadini. Cittadini, appunto, non sudditi”.
Da Ragusa, a Roma, con un’immagine “romantica” e coraggiosa del giornalismo, visto come impegno civile, soprattutto contro le mafie. Oggi da Presidente di Articolo 21 qual è la prima battaglia per la libertà d’informazione?
“Far comprendere che l’Articolo 21 non è soltanto il diritto dovere ad informare ma anche il diritto dei cittadini ad essere informati e, soprattutto, non far passare ad altri colleghi ciò che ho passato io. Non solo violenze fisiche, ma anche psicologiche e l’isolamento che, insieme al tentativo di delegittimazione, è stato drammatico”.

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