Il dibattito sulla formazione del nuovo governo, un dibattito che si protrae da diverse settimane, ha oscurato numerosi temi di economia e finanza internazionale. Tra questi uno su tutti merita di essere portato all’attenzione dell’opinione pubblica: si stanno addensando nubi nere di una crisi finanziaria prossima futura. La quiete apparente dei mercati finanziari in questa primavera e le modeste reazioni alle minacce di una guerra commerciale nascondono la preparazione di una bufera. Una testata moderata come The Economist afferma che i mercati finanziari oggi assomigliano ad uno di quei film dell’orrore dell’epoca di Alfred Hitchcock, ad esempio L’uomo che sapeva troppo , che inizia con una piacevole vacanza di famiglia in nord Africa e termina con brividi alla Royal Albert Hall.
Sotto il profilo tecnico l’aspetto più preoccupante è l’aumento dello spread tra il tasso interbancario del dollaro a tre mesi sul mercato di Londra (una delle definizioni del Libor) e l’indice dello swap overnight (Ios). Di norma, il differenziale è impercettibile, appena lo 0,1% ma nella settimana che sta per terminare oscilla tra lo 0,6% e lo 0,7%. Il differenziale è un indicatore del rischio percepito dalle banche nel fare operazioni l’una con l’altra; per esempio, al momento del fallimento di Lehman Brothers toccava il 3,6%, Inoltre, l’indice di volatilità del mercato (Vix) è aumentato rapidamente in febbraio per poi rientrare in marzo ed aprile. I tre indicatori suggeriscono che gli operatori sui mercati azionari avvertono che il quadro si sta facendo più difficile. L’incremento moderato dei tassi d’interesse negli Stati Uniti, e la fine annunciata del Quantitave Easing (Q.e) nell’eurozona avvengono, per di più, in un momento di rallentamento dell’economia reale, considerato inevitabile perché l’economia americana cresce da otto anni (una delle più lunghe fasi di espansione degli ultimi settanta anni) e la seconda maggiore economia mondiale (quella cinese) è anche essa in un periodo di indebolimento.
A questi elementi, si aggiunge la considerazione che negli anni dell’espansione mondiale (a cui l’Italia è riuscita ad agganciarsi solo tardi e male), né i Paesi industrializzati ad alto livello di reddito medio né quelli in via di sviluppo sono riusciti a ridurre il peso dei loro debiti pubblici. Dati del Fondo monetario internazionale (Fmi) documentato che nei Paesi ad alto reddito, in media lo stock di debito pubblico dal 2012 non scende al di sotto del 103% del Pil, un livello che non si conosceva dai tempi della seconda guerra mondiale; paradossalmente, il debito pubblico comincia a mordere (anche se di poco) pure in Arabia Saudita (dove era un fenomeno sconosciuto) a causa del ribasso dei corsi del petrolio. Il debito dei Paesi a basso reddito è mediamente pari al 46% del loro Pil – un aumento di 14 punti percentuali rispetto al 2012. Nelle classifiche del Fmi , il Paese più indebitato è il Giappone (240% del Pil); tra i “grandi” Paesi (escludendo Grecia, Cipro e simili), l’Italia è il secondo in classifica.
Se lo spread Libor-Ios indica un focolaio di crisi nei mercati azionari, il debito pubblico suggerisce che la miccia potrebbe essere nei mercati obbligazionari a causa del timore di un default di questo o quello, per di più in una fase in cui le banche si guardano con diffidenza.
Il prossimo governo (quale che sia la sua struttura e composizione) dovrà cimentarsi con questi nodi. Che programmi hanno le varie forze politiche che si stanno cimentando per guidare l’Italia?