Non bisogna applicare chiavi di lettura politologiche estratte dall’analisi scientifica del passato per cercare di capire cosa succederà sulla scena pubblica nel prossimo tempo: sarebbe impresa destinata a provocare un’acuta frustrazione. Occorre, invece, pensare al presente con gli occhi e le ermeneutiche del presente, senza farsi prendere da un’aristocratica nostalgia. E il presente è presto raccontato, fin dal 4 marzo. Nel senso che forse non occorreva la formalizzazione del niet da parte della direzione del Pd per comprendere che non ci sarebbe stata storia sul versante dell’alleanza di governo col M5S. E, per favore, risparmiamoci i commenti sulla storia del “contratto”, perché il governo insieme implica condivisione dei fini programmatici e, dunque, alleanza, anche se la parola sembra impudica per eserciti in guerra perpetua. E non era così complicato prevedere che, in mancanza del regime consolare ( riferito, lo dice la parola, al dio Conso) in auge nella Roma repubblicana, sarebbe stato un po’ difficile tenere dentro Salvini e Di Maio, le cui dignità sarebbero state necessariamente dispari. Poi idiosincrasie, paturnie, prolassi esternatori di questo e di quell’altro, nella stagione in cui di politico è rimasto solo l’odio e il pregiudizio anticastale e tutto il resto è solo comunicazione, hanno fatto il resto scavando baratri- o erigendo muri, fate voi- tra i partiti.
Il punto è che non solo non ha vinto nessuno, checché ne dicano i Cinque Stelle e la Lega, sennò non staremmo ad assistere a questa trista sceneggiata, ma anche i primi e i secondi arrivati non sembrano ispirati dalla cultura della mediazione e dell’alleanza tra diversi. Sia chiaro: non è che impressioni troppo il decorrere inutile dei giorni dal 4 marzo ad oggi: sono passati due mesi, ma nella storia della Repubblica abbiamo visto di peggio. E poi abbiamo la fresca “procedura Merkel” della grande Germania, che ci lascerebbe ancora qualche mese di vantaggio. Ciò che impressiona, piuttosto, è l’assoluta mancanza di prospettive per questa legislatura.
Andando a sintesi: 1) non si può votare ad ottobre. Sarebbe, probabilmente, estenuazione inutile, tenendo conto del fatto che si tornerebbe con la stessa legge elettorale senza premio di maggioranza e poi condanneremmo il Paese all’esercizio provvisorio 2) se ci mettiamo a fare da buon peso la sventagliata di nomine che attendono nel limbo delle proroghe l’uscita dal letargo della politica, dobbiamo convenire sul fatto che non si può pensare ad uno show down nel breve volgere di sei mesi, ma, se proprio si vuole praticare l’eutanasia della legislatura, dobbiamo pensare alla prossima primavera, con legge elettorale, nomine e legge di stabilità alle spalle.
Come si fa? Non c’è scelta: visto che un governo ci vuole, non può che essere un governo del Presidente, capace di mettere in campo una compagine di alto profilo istituzionale, preferibilmente fuori dal novero delle istituzioni finanziarie (perché sul tema si sono già esercitati con concetti negativi i primi arrivati del 4 marzo), un governo di garanzia democratica che offra ai partiti che ci stanno la tregua necessaria per trovare la quadra politica e, comunque per fare la legge elettorale. Se poi l’intesa per “il contratto” di governo si trova strada facendo, benissimo. Se no si faccia il lavacro elettorale in un giro di primavera 2019: politiche, amministrative, europee. E ci leviamo il dente.