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Ecco perché l’impegno di Trump può salvare il Venezuela

Non sono pochi i dossier sul tavolo del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Dal Russiagate alla Corea del Nord, passando per la Siria e l’accordo con l’Iran. C’è però una vicenda su cui il governo americano rimane impegnato, nonostante il resto del mondo la trascuri: la crisi in Venezuela.

In campagna elettorale Trump ha promesso di non abbandonare il popolo venezuelano, che da 18 anni è vittima del regime chavista, oggi guidato da Nicolás Maduro. Da quando è arrivato alla Casa Bianca, il magnate repubblicano ha incontrato rappresentanti dell’opposizione venezuelana e attivisti per i diritti umani. Non sono mancate le sanzioni imposte dal governo di Trump contro funzionari del regime venezuelano. Le ultime annunciate ieri sera dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence.

Durante un discorso all’Organization of American States, Pence ha chiesto il rinvio delle elezioni presidenziali in Venezuela prevista per il 20 maggio. Un processo elettorale inquinato dai dubbi sulla trasparenza e la legalità, ma elogiato da alcuni leader mondiali, come il Presidente russo Vladimir Putin, che lo considera un’opportunità per promuovere la riconciliazione civile in Venezuela. Pence ha chiesto più volte alla comunità internazionale di aumentare la pressione su Maduro, responsabile attuale della mancanza di cibo e medicine in Venezuela. E ha invitato Maduro ad ammettere la crisi per aprire il canale di aiuti umanitari.

Il Dipartimento del Tesoro americano ha anche annunciato sanzioni contro tre cittadini venezuelani: Pedro Luis Martin Olivares, ex funzionario dei servizi segreti venezuelani sotto accusa in Florida per traffico di droga; Walter Alexander Del Nogal Marquez e Mario Antonio Rodriguez Espinoza. Sono state colpite anche 20 società del Venezuela e del Panama, che si presume sono controllate da loro per il riciclaggio di denaro guadagnato con il traffico di droga.

È importante ricordare che a marzo il governo americano ha deciso di bandire gli acquisti con la criptovaluta Petro ideata dal governo venezuelano, mentre ad agosto ha congelato beni di otto funzionari venezuelani, tra cui Adám Chávez, fratello di Hugo Chávez, e Hermann Escarra, consigliere costituzionale di Maduro.

Un impegno fatto di azioni, non solo di parole. Ovviamente, i risultati concreti di questa strategia degli Stati Uniti non si riflettono (ancora) nella vita quotidiana del venezuelano. I visti e i conti correnti congelati ai funzionari del regime non si traducono in rifornimento di alimenti o un rallentamento dell’inflazione. Ma colpire le tasche di chi si arricchisce irregolarmente è sempre meglio di nulla.

Resta però un ultimo traguardo: l’ipotesi di attivare un embargo petrolifero per dare il colpo finale al regime. La vendita di greggio agli Stati Uniti (circa 700mila barili al giorno) è rimasta l’unica attività che offre entrate economiche allo Stato venezuelano. Tuttavia, le sanzioni economiche non distinguono colpevoli da innocenti e sono sempre questi ultimi a soffrire il peggio. L’analista Moisés Naim sostiene che un blocco petrolifero darebbe l’alibi perfetto a Maduro per responsabilizzare gli Usa dalla crisi venezuelana. Ma la crisi, comunque, sta peggiorando. Che cosa fare?

Si possono non gradire i modi e gli eccessi di Trump, ma ognuno segue a favore della propria causa. Chi ha il Venezuela nel cuore non può negare il tentativo di presidente americano. È uno dei pochi leader internazionali che sta provando a fare qualcosa di concreto per avviare la fine del regime venezuelano. Piaccia o no.


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