Sfuma la prospettiva di pace in Afghanistan aperta dalla proclamazione di un cessate il fuoco da parte del governo di Kabul – giustificata dalla necessità di assicurare i festeggiamenti pacifici dell’Eid al-Fitr, che scattano in occasione del fine del mese sacro di Ramadan – e dalla successiva adesione dei talebani.
Nonostante la proroga unilaterale della tregua per ulteriori dieci giorni decisa dal presidente afghano Ashraf Ghani, i talebani hanno annunciato ieri la ripresa delle ostilità allo scoccare della mezzanotte. E stamattina, puntuali, sono giunti i resoconti di attacchi islamisti in diversi distretti orientali e meridionali del paese. Non ci sono ancora informazioni sulle vittime, che secondo alcune fonti sarebbero numerose.
Oggi frattanto il portavoce del movimento, Zabihullah Mujahid, ha rilasciato alcune dichiarazioni ad al Jazeera con cui spiega la decisione di non aderire alla proposta di Ghani di prolungare la tregua e aprire negoziati di pace. “I nostri combattenti”, ha detto Mujahid, “riprenderanno ora le loro operazioni nel paese contro gli invasori stranieri e le loro marionette interne”. Si ribadisce dunque la tradizionale posizione talebana: niente dialogo con Kabul, nessuna distensione con Usa e Nato, combattimenti fino alla caduta del regime e alla rinascita dell’Emirato islamico.
Mujahid si è soffermato sulle scene di fraternizzazione tra talebani e governativi che hanno caratterizzato la breve tregua, interpretandole come un segnale di consenso popolare al movimento. “Il modo in cui i nostri combattenti hanno ricevuto il benvenuto dalla gente dimostra” secondo il portavoce “che la nostra richiesta e quella della nazione sono identiche: tutti vogliono il ritiro degli invasori stranieri e l’installazione di un governo islamico”.
In un’altra dichiarazione resa ai media, i talebani hanno cercato di smontare la versione del governo secondo cui non esiste una resistenza unificata, ma tanti gruppi che agiscono indipendentemente. “I nostri nemici”, affermano i talebani, “sono soliti sostenere che venti diversi gruppi operano contro di loro in Afghanistan o che (chi combatte per) l’Emirato islamico non è coeso e unificato. Ma ora è diventato abbondantemente chiaro a tutti che questa asserzione non ha fondamento”. Quella del governo sarebbe dunque pura “propaganda”, un disperato “tentativo di confondere l’opinione pubblica” che non fa altro che “complicare la crisi e impattare negativamente sugli sforzi per la pace”.
I talebani ribadiscono quindi che non sono disponibili a trattare con nessuno, tanto meno con il governo centrale e col suo presidente Ghani. “L’intera nazione”, prosegue la dichiarazione, dovrebbe rendersi conto che non sono possibili “colloqui pubblici né segreti con il regime marionetta di Kabul”.
Sfuma, dunque, la speranza – accesa il 5 giugno dal presidente afghano con la proclamazione unilaterale di una tregua – di una possibile apertura di negoziati tra governo e talebani. Una speranza coltivata e incoraggiata da molti, a partire dagli americani.
“Ciò cui abbiamo assistito negli ultimi giorni”, ha dichiarato il portavoce delle forze americane in Afghanistan e dell’operazione Nato Resolute Support, tenente colonnello Martin O’Donnell, “è una schiacciante risposta positiva di tutti gli afghani” al tentativo promosso da Kabul di promuovere “la pace”. Nemmeno i due attentati messi a segno durante il cessate il fuoco nella provincia di Nangarhar, uno dei quali rivendicato dallo Stato islamico, hanno rallentato secondo O’Donnell “l’impulso nazionale” a lavorare per una “cessazione delle ostilità” e per dare una “chance per una pace duratura”.
A salutare il cessate il fuoco era stato anche il Segretario di Stato Mike Pompeo, che nel weekend aveva rilasciato una dichiarazione ottimistica: “se gli afghani possono pregare insieme”, come hanno fatto in occasione di questi tre giorni di tregua, “i loro leader possono senz’altro parlarsi e risolvere le loro differenze. Gli Stati Uniti”, concludeva Pompeo, “sono pronti a lavorare con il governo afghano, i talebani e tutto il popolo dell’Afghanistan per raggiungere un accordo di pace e una soluzione politica che porti a una fine permanente di questa guerra”.
Delusione cocente anche per le Nazioni Unite, che per bocca del loro inviato in Afghanistan, Tadamichi Yamamoto, avevano elogiato sia Ghani sia i talebani per aver rispettato il cessate il fuoco, intravedendovi una storica opportunità per “iniziare una soluzione negoziata del conflitto”. L’inviato ha espresso un plauso al presidente afghano per aver esteso la tregua di ulteriori dieci giorni: l’UNAMA – la missione in Afghanistan dell’Onu comandata da Yamamoto – “apprezza fortemente la decisione del presidente Ghani” e esorta i talebani a non ignorare “il desiderio e l’aspirazione del popolo afghano di una fine del conflitto”.
Di questi tre giorni di interludio della guerra infinita che si combatte dal lontano 2002 rimarranno però solo le immagini, senz’altro suggestive, dei selfie tra talebani e soldati delle forze regolari, e le preghiere comuni tra civili e talebani nelle moschee afghane. Tutto il resto è stato spazzato via dalla ripresa delle ostilità e dalle dichiarazioni dei talebani con cui ribadiscono la loro linea: nessun negoziato, lotta ad oltranza fino alla restaurazione dell’Emirato.