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La disperazione dei cristiani a Gerusalemme e l’irrilevanza politica europea. Parla Monsignor Pizzaballa

Il disastro dopo lo spostamento di Trump dell’ambasciata americana, la fine dei negoziati così come sono conosciuti e la necessità di trovare nuove strade, infine l’irrilevanza politica dell’Unione Europea. L’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, monsignor Pierbattista Pizzaballa, parlando in conferenza stampa ai giornalisti prima del convegno organizzato dalla Pontificia Università della Santa Croce “Vivere la Terra Santa”, ritrae un disegno chiaro e sconfortante, per quanto riguarda la situazione in Terra Santa dopo la crisi che ha fatto seguito allo spostamento dell’ambasciata degli Stati Uniti in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme il 14 maggio.

Qual è la situazione in Medio Oriente dopo l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme, e c’è stato qualche impatto sulla comunità cristiana?

Come Chiesa cattolica e cristiana, in particolare in Terra Santa, si è già stati molto chiari. Dal punto di vista pratico a Gerusalemme non è cambiato molto, la vita scorre come prima. Dal punto di vista politico ha azzerato ogni forma di relazioni sia tra israeliani e palestinesi, che già prima erano minimi, ma anche con Stati Uniti, Palestinesi e così via. La conseguenza più grave e più evidente riguarda Gaza, con le manifestazioni che hanno avuto come motivo principale la decisione di Trump, ma a questo va aggiunta la situazione particolare di Gaza, con l’assedio, e la miseria in cui si trova la popolazione. Ora dal punto di vista politico si dovranno trovare nuove vie, ma non saprei né dove né quando, onestamente. Erano molto fragili i canali di comunicazione, adesso sono totalmente assenti.

Lei pensa e nutre la speranza che il processo di pace possa essere ripreso?

Come l’abbiamo conosciuto, no. Io non sono un politico, ma questa fase, questo modello, si sia esaurito. Ora sarà necessario trovare nuove forme, nuovi modelli, ma come e quali è molto difficile in questo momento dirlo, perché non c’è nessuna comunicazione, dialogo o intenzione. Tra l’altro Israele è molto forte, l’adunata palestinese ha i loro travagli interni, quindi in questo momento è molto difficile, e il quadro regionale è totalmente in soqquadro. È molto difficile prevedere quali saranno i modelli per riprendere il negoziato. È chiaro che un negoziato ci dovrà essere, non si può restare così in eterno.

L’appuntamento del 7 luglio indetto a Bari da Papa Francesco può fungere da stimolo?

In genere a noi pastori vengono fatte domande di carattere politico. Per noi è però chiaro che da cristiani dobbiamo trovare un nostro linguaggio, un nostro modo di parlare e cosa dire, e credo che l’incontro di Bari sia molto importante perché mette insieme tutte le diverse anime cristiane, e delle Chiese del Medio Oriente, innanzitutto per ritrovarsi, e per ritrovare un linguaggio comune, per dirlo insieme. Non dimentichiamo che noi siamo pastori, e non dobbiamo elaborare teorie, ma dire una parola chiara. Di verità, ma anche di speranza, alla nostra gente, insieme, come Chiese. Credo che questo sia lo scopo principale.

Come è lo stato di salute del gregge cristiano, in Isreale e Palestina, e nello specifico, viste anche le turbolenze a Gerusalemme, di quella esigua minoranza che resiste all’interno della città vecchia?

I numeri sono in un certo senso preoccupanti, su sette milioni di ebrei israeliani in Israele e circa un milione e mezzo di arabi israeliani, ci sono circa 130 mila cristiani in totale. In Palestina circa 4 milioni e mezzo di musulmani e i cristiani sono circa 45 mila. Numeri che sono indicativi di una realtà piuttosto preoccupante. Per quanto riguarda Gerusalemme, in tutta la città i cristiani siamo circa ottomila, sparsi su un territorio molto vasto. Quindi non è soltanto un numero ridotto ma anche una distribuzione molto ampia, che rende problematico il servizio pastorale. Non stiamo scomparendo: siamo pochi ma resteremo. C’è una immigrazione oggettiva ma c’è anche una questione demografica, la componente musulmana cresce molto di più perché ha molti più figli di noi. Non siamo in via di estinzione ma siamo diventati una presenza numericamente piccola. Che resta comunque però molto vivace e propositiva: solo sui luoghi cristiani ci sono tre o quattro milioni di pellegrini ogni anno, e sono in aumento. Una delle novità belle di questi anni: che i pellegrinaggi aumentano ogni anno del 50 per cento in più, che è un modo importante per preservare i caratteri cristiani.

Per quanto riguarda l’accordo e i negoziati, si sono fatti passi avanti?

Noi scherzando diciamo che il negoziato è ormai diventato un secondo status quo. Credo che non ci sono più molti argomenti di discussione, tutti i punti sono stati discussi. Mi pare di capire, senza anticipare nulla, che c’è un clima di forte volontà di concludere.

Dicendo che è necessario trovare una via negoziale diversa significa che la soluzione a due Stati non è più praticabile?

È una grossa domanda. Dal punto di vista ideale resta la soluzione migliore, dal punto di vista pratico ci sono molte domande da farsi, e bisogna essere molto onesti. È evidente che comunque la forma di negoziato nato dagli accordi Oslo si è esaurita, si dovranno trovare delle forme per riesumare in maniera seria il negoziato tra le parti per trovare una definizione o un orientamento di un accordo. Bisogna da una parte definire cosa, come, quando, e non certo noi. Senza essere troppo profeta mi sembra che la spinta di Oslo si sia esaurita.

Pensa che possa esserci un ruolo attivo da parte dell’Unione europea, e come valuta la voce dell’alto rappresentante dell’Unione europea?

Dovrebbe esserci, ma di fatto l’Unione europea è assente. Forse c’è ma comunque è irrilevante. Che ci sia e sia presente sarà pur vero, con un ruolo economico importante. Ma resta irrilevante. Anche perché non ha una opinione condivisa sulla questione.


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