Nel prossimo Summit dei capi di Stato e di governo, in programma a Bruxelles l’11 e 12 luglio, l’Alleanza Atlantica è chiamata alla prova più difficile, quella dell’unità politica. Inoltre, si dovrà sciogliere il nodo della postura nei confronti di Mosca, trovando modi per far ripartire il dialogo, mentre occorrerà evitare che la rottura del G7 in Canada possa ripetersi. Parola di Douglas Lute, rappresentante permanente degli Stati Uniti alla Nato dal 2013 al 2017, e già consigliere di ben due presidenti americani per le questioni relative alla sicurezza nazionale. Con lui ci siamo soffermati all’interno del nuovo quartier generale della Nato, a margine del “Transatlantic strategic dialogue” organizzato a Bruxelles dall’Aspen Initiative for Europe e dall’Aspen Strategy Group degli Stati Uniti con il supporto di Airpress e di Microsoft.
In attesa di un incontro tra Trump e Putin, la Nato continua a sostenere il tradizionale dual track nei confronti della Russia: deterrenza e opportunità di dialogo. Quale dei due binari prevarrà al prossimo Summit?
La migliore risposta a questa domanda dovrebbe essere che i due binari procedano in maniera bilanciata. Se aumentiamo la deterrenza e la forza, dovremmo fare pari avanzamenti sul lato del dialogo. Da questo punto di vista, la sfida attuale è rappresentata dal fatto che il dialogo latita, mentre vengono adottate nuove misure di difesa. I battlegroup per la deterrenza nel fianco nord orientale dell’Alleanza, la Readiness initiative (i cosiddetti “quattro trenta” che verranno formalizzati nel Summit di luglio: entro il 2020, 30 battaglioni meccanizzati, 30 squadroni aerei e 30 navi da guerra in grado di essere operativi in 30 giorni, ndr) e la stessa spesa per la difesa sono misure di forza, che si inseriscono nel primo binario.
Come si può recuperare il dialogo perso?
Il luogo in cui ingaggiare Mosca resta il Consiglio Nato-Russia, attivo da circa sedici anni ma con un format in cui la controparte russa siede al tavolo di fronte a 29 rappresentanti di Stati dell’Alleanza. In tale ambito si possono discutere le questioni di comune preoccupazioni, o si possono spiegare a vicenda le esercitazioni militari così che ognuno sia a conoscenza del comportamento altrui. Tuttavia, la sfida di oggi consiste nel fatto che il Consiglio non si sta incontrando con regolarità, e soprattutto che la parte russa è stata ridotta da rappresentanza presso la Nato a semplice delegazione. Quindi, nel momento in cui per le misure di deterrenza stiamo lavorando a più stretto contatto e con maggiore intensità nell’Alleanza, stiamo riducendo il dialogo con Mosca, e questo può essere pericoloso.
Al Summit si parlerà anche della missioni internazionali, a partire da Afghanistan e Iraq, un tema che in Italia è stato ultimamente oggetto di un ampio dibattito. Perché la Nato vuole rafforzare l’impegno in questi contesti?
Innanzitutto è opportuno distinguere le due missioni. L’impegno dell’Alleanza in Afghanistan segue una precisa logica strategica che parte da ciò che è successo nel 2001, quando è stato evidente che dal Paese potevano partire attacchi terroristici tesi a colpire il mondo intero. L’obiettivo fondamentale della missione, oggi come allora, è lo stesso: lasciare l’Afghanistan in condizioni di non essere più un safe haven per chi organizza questo tipo di attacchi.
E per l’Iraq?
L’Iraq, invece, si inserisce nell’impegno della Nato nel suo immediato vicinato. Qui la logica è differente: siamo più sicuri all’interno dell’Alleanza se anche i nostri vicini sono stabili e sicuri. In altre parole, invece di aspettare che le sfide alla sicurezza arrivino dentro i nostri confini, cerchiamo di essere in grado di esportare stabilità e sicurezza lavorando insieme ai Paesi in oggetto, in un contesto di partnership che mira a sostenerli nella costruzione delle capacità di difesa, sicurezza e stabilità interna. Così, la cooperazione con gli Stati del vicinato è da intendersi anche come misura preventiva, come uno sforzo intrapreso prima che la minaccia si presenti. In questo modo si spiegano le partnership con l’Iraq, con la Giordania, con i Paesi del nord Africa come Tunisia, Marocco e così via. Si tratta di un’opportunità a un costo relativamente basso per investire nella stabilità dei nostri vicini e nella nostra sicurezza.
Nel frattempo, l’Unione europea procede spedita sul fronte della difesa comune, tra la Pesco e il Fondo predisposto dalla Commissione che potrebbe dotarsi di 13 miliardi di euro per il periodo 2021-2027. Gli Stati Uniti come percepiscono questo sforzo?
Molti seri osservatori applaudono a questa iniziativa dell’Unione europea, e ciò è da rintracciare nel fatto che il rapporto transatlantico è sempre stato basato sul burden sharing, cioè sulla condivisione di interessi ma anche di responsabilità. Dunque, negli Stati Uniti tale progetto è visto da molti come uno sforzo degli alleati europei in un format diverso, interno all’Unione europea, teso a rispondere a questa responsabilità, e dunque è percepito come una buona notizia. Tuttavia, l’analisi prosegue su altri punti: se da una parte è importante che l’Europa aumenti il suo impegno per la sicurezza e costruisca capacità di difesa, dall’altra è fondamentale che queste siano complementari alla Nato, così che possano operare fianco a fianco con l’Alleanza senza essere viste come competitive. Dunque, l’espressione chiave è “complementary, not competitive”.
Cosa intende?
Ciò significa, in altri termini, che è un fatto positivo che l’Europa acquisisca delle capacità di difesa che possano essere utilizzate all’interno del framework dell’Ue o, in altri circostante, in quello della Nato. Un problema emergerebbe nel caso in cui tali capacità vengano invece negate all’Alleanza Atlantica e impiegate esclusivamente nell’ambito dell’Unione europea. In una condizione di carenza di risorse, non avrebbe senso comprare assetti che possono essere utilizzati solo in ambiti limitati e circoscritti.
I rapporti tra Stati Uniti ed Europa sembrano a dura prova su tanti fronti, dal commercio al clima, passando per la questione di Gerusalemme e le divergenze sull’accordo nucleare sull’Iran. C’è il rischio che ciò si estenda anche ai temi della sicurezza e difesa e che esploda al Summit Nato di luglio?
Posso solo dire che spero che ciò non accada. D’altronde, giorno dopo giorno, la Nato compie il suo lavoro con impegno; tre o quattro volte all’anno i ministri vengono nel quartier generale della Nato e proseguono il business as usual durante le ministeriali Difesa ed Esteri; mentre la meccanica interna compie grandi progressi. Tuttavia, una volta ogni due anni, quando si incontrano i capi di Stato e di governo, tutto questo lavoro si carica di una visibilità pubblica enorme, e ciò succederà nuovamente tra poche settimane. In tali occasioni estive, la preoccupazione per i dettagli relativi ai meccanismi interni all’Alleanza è poca. Ciò che è richiesto ai Summit, e che spero venga fuori anche dal prossimo, è una dimostrazione di solidarietà, di “29 per uno e uno per 29”. Questa è la cosa più importante che dovrà avvenire al vertice di Bruxelles, cercando di evitare l’indesiderabile ripetersi della dimostrazione pubblica del recente G7 in Canada, che ha palesato una certa divisione. Al contrario, ciò che ci aspettiamo dal prossimo Summit è esattamente l’opposto, e cioè una dimostrazione di solidarietà e unità.