Dietro la storia della globalizzazione e dei timori della stagnazione secolare si cela un fenomeno importante e tuttavia trascurato: il crescente divario tra la necessità di capitalizzare una nuova fase di sviluppo dell’economia mondiale ed il crollo degli investimenti pubblici sotto il 7% del PIL.
Le ragioni di questa caduta sono complesse e dipendono in parte dalla gravità dell’ultima recessione mondiale, anche se la tendenza alla diminuzione appare persistente nel tempo (almeno 20 anni) e nonostante alcuni recenti segni di ripresa soprattutto nelle economie emergenti. Nell’ambito di un cambiamento strutturale di fondo, la diminuzione degli investimenti pubblici sembra essere legata alla palese mancanza di capacità di governance economica globale di fronte alla crescente rilevanza del cruciale patrimonio di capitale transfrontaliero e multinazionale derivante dalle infrastrutture fisiche e sociali.
La natura controversa degli investimenti pubblici come stimolo anticiclico ha contribuito ad oscurare la questione della sua caduta a lungo termine, con molti governi che si sentono giustificati nel fare tagli più profondi per le spese di investimento pubblico. Altri governi sono invece impegnati nel favorire partenariati pubblico-privato e altre forme di finanziamento misto, che sebbene rechino alcuni meriti impliciti, sono strumentali nel distogliere i fondi pubblici dagli investimenti in infrastrutture di base e nel benessere sociale, entrambi investimenti poco attraenti per il finanziamento privato e che si sono ridotti all’1-2% del PIL. Questa tendenza negativa è resa più drammatica dal fatto che l’unico tipo di investimento con un impatto i cui effetti non si limitino ai singoli paesi è di natura pubblico-privata e quindi esclude esplicitamente investimenti pubblici quali quelli in infrastrutture e i programmi multilaterali di welfare.
Infine, gli investimenti pubblici sono stati influenzati negativamente dalla crescente incertezza sui numerosi fronti dei cambiamenti climatici, delle prospettive di crescita economica, delle guerre, del terrorismo e della criminalità. Le condizioni di deterioramento di questi fattori hanno riverberato più che proporzionalmente sugli investimenti pubblici piuttosto che privati, perché il capitale pubblico non ha una rete di supporto internazionale, mentre quello privato è più solidamente sostenuto dalla crescente dominanza di mercato delle società multinazionali. Il calo degli investimenti pubblici, tuttavia, ha un impatto negativo sugli investimenti privati, a causa della sua funzione strumentale nella creazione di capacità anche per gli agenti privati, fornendo loro un contributo critico di risorse umane e capitale sociale.
IL DECLINO DEGLI INVESTIMENTI E DELLA CRESCITA
In quasi tutti i paesi avanzati gli investimenti reali, in particolare quelli nell’area dell’euro, hanno rallentato dopo il 2008 e rimangono tuttora inferiori alle medie dei periodi precedenti. Il continuo declino dell’accumulo di capitale è un fattore che non solo alimenta la mancanza di domanda aggregata ma mina anche la crescita a lungo termine. I dati mostrano non solo l’impatto del calo degli investimenti fissi lordi sulla domanda complessiva, ma anche che gli investimenti netti sono stati gradualmente erosi. In altre parole, il capitale netto si è bloccato, con gravi conseguenze sulla capacità produttiva e sul tasso di crescita del potenziale di produzione. Di particolare rilevanza è la diminuzione negli ultimi anni del patrimonio netto nel settore manifatturiero e la sostanziale riduzione degli investimenti pubblici.
La caduta degli investimenti non appare quindi come solo un problema a breve termine di divario tra produzione attuale e produzione potenziale, che consiglierebbe di agire sugli investimenti come una componente della domanda aggregata. Piuttosto, si tratta di un declino che mostra aspetti strutturali, in cui appare giocare un ruolo primario la caduta e, sotto certi aspetti, la involuzione degli investimenti pubblici.
La determinazione del tasso di investimento ottimale in un’economia avanzata con una popolazione in declino come l’Italia non è un problema di facile soluzione. Tuttavia, è chiaro che non ci può essere aumento dell’occupazione e della produttività del lavoro, e quindi del reddito, con una crescita nulla o negativa di capitale sociale. Va infatti tenuto presente che, secondo il modello di riferimento standard di crescita economica, nella traiettoria di equilibrio, un livello più elevato di reddito pro-capite è associato ad un livello più elevato di capitale sociale pro capite in tutte le sue forme (includendo cioè anche il capitale umano e il capitale naturale). In queste condizioni, la prospettiva rischia quindi di essere quella di un continuo declino verso salari più bassi e minore produttività, sullo sfondo di una evoluzione che favorisce gli investimenti in sistemi e dispositivi di risparmio di lavoro in settori che utilizzano le nuove tecnologie, soprattutto nell’area dei servizi. Questa tendenza non può che essere controbilanciata dalla creazione di nuovi prodotti e servizi. Ma ciò può accadere solo dove c’è una domanda effettiva da parte del mercato.
Inoltre, la creazione di nuovi posti di lavoro associati alle nuove tecnologie, alcune delle quali caratterizzate da un minore rapporto capitale/manodopera, scaturiscono dal tipo di trasformazione strutturale delle economie che richiedono ampi investimenti in infrastrutture di rete, ricerca e istruzione. La conclusione inevitabile è che la stagnazione negli investimenti e nella produttività sono due facce della stessa medaglia.
In termini di politiche, l’idea che “gli investimenti privati si adeguano alla dinamica di produzione” è una spiegazione basata su una visione dell’economia che trascura le sue caratteristiche strutturali. Secondo questo punto di vista, gli investimenti aumentano se gli investitori si aspettano una crescita stabile della domanda e della produzione. Tuttavia, non vi è alcun motivo per cui questa aspettativa dovrebbe prevalere senza la parallela aspettativa di un forte aumento degli investimenti produttivi guidati da innovazione, guadagni di produttività e rendimenti attesi più elevati sul capitale che consentono più occupazione e redditi.
In realtà, il cosiddetto “modello acceleratore” implica un driver esogeno, come la spesa pubblica, e uno stimolo fiscale per rilanciare la crescita. Inoltre, una via d’uscita dal tasso di crescita lenta basato su questa prospettiva rischia di creare problemi di contrasto nei paesi con uno spazio fiscale ridotto e con un debito elevato, a causa della potenziale crescente incertezza dovuta a un’instabilità finanziaria potenziale e, di conseguenza, possibili cambiamenti di politica.
Un ulteriore fattore strutturale, che può essere proposto come parte della spiegazione della bassa dinamica degli investimenti produttivi, è la crescente incertezza che aumenta i rischi delle attività di investimento. Questo fattore di incertezza è legato al concetto Schumpeteriano di distruzione creativa. Un recente dibattito ha contestato l’idea tradizionale che il contributo sul PIL della componente creativa delle innovazioni, della produttività e dell’occupazione sia molto più grande dell’effetto della componente distruttiva, almeno nel lungo periodo. Benché questa tesi sia stata confermata dalla storia della crescita economica, quando e dove si verifica la distruzione e quando e dove si verifica la creazione è rilevante nel breve e medio termine. In altre parole, dobbiamo considerare le esternalità negative dovute alla distribuzione degli effetti distruttivi delle innovazioni tra settori produttivi, imprese, cittadini e paesi.
Questo problema non è nuovo e un numero crescente di studiosi stanno considerando l’ipotesi che l’effetto negativo della componente distruttiva dell’innovazione stia crescendo, e così i costi sociali ed economici delle innovazioni. Di conseguenza, starebbe diminuendo l’impatto delle nuove tecnologie sulla crescita del PIL. Questo può accadere se i prodotti e servizi sviluppati dalle nuove tecnologie sono stretti sostituti di quelli vecchi, causandone così una più rapida e radicale obsolescenza.
È difficile ottenere prove empiriche per questa congettura che si concentra sulle esternalità negative delle innovazioni sulle imprese esistenti e sull’occupazione. Qui vogliamo evidenziare un possibile effetto diverso e meno esplorato: come l’attuale globalizzazione dell’economia possa aumentare il rischio implicito in qualsiasi investimento innovativo a causa della maggiore velocità del cambiamento tecnologico.
Questo, a sua volta, implica una maggiore velocità della sua diffusione in tutto il mondo e, di conseguenza, l’obsolescenza tecnologica delle innovazioni e degli investimenti precedenti. Molte imprese che investono in innovazione e nuove tecnologie rischiano così di non essere mai in grado di raggiungere il pareggio in tempo per un rendimento adeguato dal prodotto o processo che hanno contribuito a sviluppare, perché una nuova ondata di innovazioni le spinge fuori dal mercato prima che le innovazioni in cui hanno investito giungano a produrre dei frutti. La componente distruttiva della concorrenza Schumpeteriana in questo nuovo contesto può avere un impatto crescente negativo anche sulle decisioni di investimento di potenziali innovatori e imprenditori. Ciò implica che gli investitori privati saranno meno disposti a cogliere tutte le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e a fornire nuovi servizi e prodotti anche se esiste una domanda potenziale, perché i mercati globali competitivi diventano di per sé sempre più rischiosi.
IL RUOLO DEGLI INVESTIMENTI PUBBLICI
Il continuo declino dell’accumulo di capitale è un fattore che non solo alimenta la mancanza di domanda aggregata ma mina anche la crescita a lungo termine. Uno stimolo agli investimenti privati, attraverso varie forme di incentivi fiscali, e un rinnovo degli investimenti pubblici sono una possibile risposta a queste carenze. Ciò deriva dal fatto che gli investimenti pubblici sono parte della domanda complessiva, come parte del totale degli investimenti, ma anche al fatto che essi agiscono sul potenziale di produzione attraverso il loro effetto sulla produttività del capitale privato, e quindi sulla offerta aggregata.
Studi recenti (Fourier 2016) e meno recenti (Aschauer 1989 e 2000, Felli-Tria 2001, Abiad et al. 2014) mostrano l’effetto positivo degli investimenti pubblici sulla crescita. Questo effetto positivo dipende dalla misura in cui gli investimenti pubblici complementano o sostituiscono gli investimenti privati.
L’effetto positivo tende a prevalere se lo stock di capitale pubblico è complementare al capitale privato e gli investimenti pubblici aumentano il rendimento del capitale privato. Le analisi empiriche suggeriscono che questo effetto positivo è particolarmente forte nel caso degli investimenti pubblici nelle infrastrutture e nell’istruzione perché queste aumentano lo stock di capitale umano e fisico e quindi la capacità produttiva aggregata con effetti virtuosi sulla crescita di lungo termine. In questo caso gli investimenti totali tendono ad aumentare più dell’aumento degli investimenti pubblici. Al contrario, gli effetti possono essere negativi quando il capitale privato e pubblico sono sostitutivi, gli investimenti pubblici non aumentano il rendimento del capitale privato e sono meno efficienti di questi ultimi.
Tuttavia, in relazione al caso italiano, è importante osservare che se gli investimenti passati sono stati inefficienti, il capitale sociale esistente può essere insufficiente e quindi l’ulteriore investimento pubblico è in grado di fornire grandi rendimenti marginali. Le politiche che aumentano l’efficienza degli investimenti pubblici forniscono particolari guadagni di grande crescita poiché beni pubblici di alta qualità sostituiscono beni pubblici di bassa qualità.
Le verifiche empiriche più recenti (Fourier 2016) mostrano anche che, sebbene i ritorni marginali degli investimenti pubblici diminuiscano quando gli stock di capitale pubblico aumentano, essi sono significativamente positivi nella maggior parte dei paesi. Per esempio, secondo studi recenti, lo stock ottimale di capitale pubblico può essere stimato a circa 75 al 110% del PIL (Fourier 2016), e l’attuale livello di capitale sociale come percentuale del PIL (dati del FMI per l’anno 2015) è di circa 55% in Italia, 46% nel Regno Unito, 48% in Germania, 57% in Spagna, 64% negli USA e 72% in Francia.
Anche se la stima del livello di stock ottimale di capitale pubblico è basata su modelli teorici non necessariamente condivisibili, gli stessi studi empirici suggeriscono che il livello attuale del capitale pubblico è subottimale nella maggior parte dei paesi avanzati (con il Giappone come possibile eccezione). Un ampio programma di investimenti pubblici appare quindi come uno strumento politico necessario per rilanciare la crescita come driver per gli investimenti privati, nella misura in cui gli investimenti pubblici produttivi possono aumentare il ritorno al capitale privato. Questa conclusione trae maggiore forza dalle recenti tendenze che puntano nella direzione opposta. A tal proposito, gli investimenti fissi delle amministrazioni pubbliche sono diminuiti di circa il 28% nell’area dell’euro (19 paesi) tra il 2009 e il 2016 (dal 3,5 al 2,2 per cento del PIL), con grandi differenze tra i vari paesi. In Italia la diminuzione è stata di quasi il 40 per cento (dal 3,4 al 2,2 per cento del PIL) e in Francia circa il 20 per cento (da 4, 3 a 3,4 del PIL).
IL RUOLO DEGLI INVESTIMENTI PUBBLICI SUL VERSANTE DELL’OFFERTA
L’impatto sull’offerta produttiva della spesa pubblica per investimenti è evocato in numerosi documenti dalle istituzioni internazionali, ma raramente è riconosciuto nella politica nazionale. E la relativa confusione con l’aggiustamento fiscale causa la sua assenza nelle politiche economiche di molti Paesi sviluppati così come in via di sviluppo.
In linea di principio, le caratteristiche del lato dell’offerta dipendono dal fatto che gli investimenti pubblici spostano la frontiera di produzione e quindi sottraggono l’economia alla maledizione della cosiddetta curva di Laffer, per cui tutto l’aumento dell’imposizione riduce i redditi di governo al margine e al di là di un certo livello anche in termini assoluti. D’altro canto, qualsiasi riduzione degli investimenti pubblici non va certo a sostegno della crescita economica e, se sostituita con le spese correnti, può creare la necessità di ulteriori aggiustamenti fiscali.
La dinamica dello spazio fiscale e le esigenze finanziarie si intersecano con il lato della domanda nel cosiddetto “spazio fiscale”. Si tratta di un crescente problema globale che rispecchia il divario tra le grandi risorse necessarie a sostenere i programmi di spesa pubblica e la ridotta capacità dei governi nazionali di aumentarli.
Queste caratteristiche sono particolarmente gravi per i paesi con un alto debito pubblico, dove la spesa pubblica è difficile da sostenere per due ragioni concomitanti. Da un lato, la sua flessibilità è limitata da vincoli interni ed esterni, comprese le varie norme nazionali e, nel caso europeo, quelle sovranazionali. D’altra parte, l’andamento dei mercati finanziari è un agente imprevedibile che mina la credibilità di un percorso temporale coerente e quindi la stessa credibilità delle politiche adottate. Le risorse disponibili per la modulazione della spesa pubblica sono pertanto continuamente compromesse dal calo delle entrate pro-cicliche e dalla disponibilità di sostegno da parte dei mercati finanziari.
La crisi dello spazio fiscale trova la sua fonte in questo scenario in cui la spesa pubblica è sempre più inaffidabile come uno strumento di politica economica sostenibile,. Anche se il concetto è complesso e facile da prestarsi a interpretazioni diverse, l’idea dello spazio fiscale emerge per dimostrare che la politica di spesa pubblica può essere dispiegata in modo sostenibile solo se il bilancio pubblico è sufficientemente robusto rispetto agli shock esogeni per consentire al policy maker la necessaria discrezionalità.
Secondo diversi studi autorevoli del FMI, le condizioni per creare spazio fiscale sono endogene alla politica economica dei governi e possono essere inglobate nei seguenti punti principali:
- Coerenza con gli obiettivi politici di un governo che includono il raggiungimento di una rapida crescita economica secondo i target dei Sustainable Development Goals, tenendo conto dei potenziali effetti di feedback dei diversi programmi di spesa sul tasso di crescita.
- Sostenibilità macroeconomica e fiscale: ossia la spesa complessiva del programma deve essere coerente sia con un quadro di politica macroeconomica stabile e favorevole alla crescita, sia con una posizione finanziaria sostenibile per il governo sul medio-lungo termine.
- Sostenibilità del bilancio a medio termine per agevolare un agevole e percorso di spesa ben sequenziato, in particolare per i programmi del settore sociale, tenendo conto delle implicazioni di spesa ricorrente (O&M) dei nuovi investimenti.
- Completezza in termini di inclusione di tutti gli elementi nel programma fiscale del governo, comprendente non solo entrate e uscite immediate, ma anche gli impegni e le garanzie fiscali potenziali.
- Migliore performance della spesa e delle entrate pubbliche che promuova anch’essa una sostenibilità a lungo termine.
Anche se ci sono seri dubbi sul fatto che le contraddizioni tra politiche espansive e restrittive possano essere superate da forme di ridistribuzione delle spese e delle entrate, la riconsiderazione dello spazio fiscale sta lentamente portando alla valorizzazione delle politiche di investimento pubblico e la loro capacità di generare “isole di sostenibilità ” attraverso un legame più stretto tra la spesa immediata e futura.
Come potenziali “isole di sostenibilità “, i progetti di investimento hanno la duplice attrattiva di promettere di generare le proprie risorse e quindi il loro spazio fiscale, almeno a medio termine, oltre a creare esternalità positive nel bilancio e tra bilanci pubblici. Queste esternalità dipendono da vari fattori: le garanzie esplicite o implicite che i progetti possono creare attraverso la loro realizzazione, le sinergie con gli investimenti privati, le pressioni più basse dei mercati finanziari per imprese apparentemente autonome, che possono anche coinvolgere le parti private interessate.
Queste considerazioni tendono anche a evocare la vecchia idea che la spesa in conto capitale debba essere trattata in modo diverso dalle spese correnti nella contabilità del disavanzo. La riassegnazione delle spese e quindi la stessa idea di revisione della spesa ricevono una prima e abbastanza semplice applicazione nell’idea che la spesa corrente debba essere ridotta, mentre la spesa in conto capitale dovrebbe essere ampliata, soggetta a una qualità programmata e a rigorosi controlli, e finanziata in modo indipendente con uno stretto legame tra la spesa immediata e risultati attesi.
Sul versante dell’offerta, gli investimenti possono quindi essere considerati un’attività che si fonda saldamente sul duplice contributo all’economia: l’espansione della capacità produttiva e la valorizzazione della produttività; entrambi fattori che ampliano lo spazio fiscale aumentando produzione potenziale e crescita a lungo termine. Tuttavia, ciò non sminuisce il ruolo degli investimenti sul versante della domanda, dal momento che l’aumento potenziale di produzione di per sé può anche ampliare il divario tra la domanda effettiva e potenziale, durante una recessione, o un lento recupero. Gli investimenti pubblici, quindi, sembrano avere un duplice ruolo, poiché il lato dell’offerta, che è prevalente in termini di effetti sulla capacità di crescita a lungo termine, è naturalmente integrato dallo stimolo offerto dal corrispondente aumento autonomo della domanda.
Queste considerazioni sono convalidate dalla recente esperienza dei paesi europei, soprattutto per quanto riguarda la capacità della spesa in conto capitale di creare spazio fiscale. La figura 1 mostra come i paesi europei sono distribuiti in termini assoluti e relativi al debito, mentre la figura 2 mostra le diverse performance durante la crisi dal punto di vista della crescita economica e della disoccupazione.
· Figure 1. Debt and Fiscal Space in Europe
Figure 2: The response to crisis in Europe
Le esperienze sembrano produrre risultati diversificati. Per alcuni paesi – la Polonia è il caso più eclatante – la disoccupazione diminuisce considerevolmente nonostante la recessione. Gli studi econometrici mostrano però un effetto importante: il più grande spazio fiscale non solo dà l’opportunità di stimolare la crescita con politiche espansive, ma questi sono nettamente più efficaci quando si basano sulla spesa per investimenti, o quando il paese è caratterizzato da alti investimenti e questi non sono influenzati dalla recessione e/o dal consolidamento fiscale. Ad esempio, un attento studio delle prestazioni europee durante la crisi (Zolt e Gubik, 2016) giunge alle seguenti conclusioni:
- I Paesi che sono riusciti a mantenere un livello relativamente elevato di investimenti sono passati attraverso la crisi con un calo inferiore del tasso di crescita del PIL.
- Le variazioni della spesa e delle entrate pubbliche mostrano entrambe una correlazione significativa con la variazione del tasso di crescita del PIL.
Questi risultati suggeriscono che nelle condizioni di stress dei mercati finanziari, quali quelli della grande recessione, che per molti versi tendono a persistere, il tradizionale spazio fiscale tende a ridursi. Questa tendenza può tuttavia essere neutralizzata dall’espansione simultanea delle spese e delle entrate permesse da una spesa in conto capitale adeguatamente qualificata. La spiegazione economica di questo effetto è di tipo Ricardiano, e sembra plausibilmente legata alle aspettative di neutralità temporale del bilancio, almeno per quanto riguarda gli investimenti produttivi.
Questa conclusione è interessante anche perché non si applica solo ai singoli paesi, ma è valida per l’intera Europa e soprattutto per l’eurozona. Per quest’ultimo gruppo di Paesi, in cui manca attualmente una politica fiscale europea, la creazione di uno spazio fiscale comune potrebbe di fatto essere il risultato di un programma di investimenti sufficientemente ampio e promettente sul versante delle spese e di rendimenti prevedibili e, allo stesso tempo, di finanziamenti negoziabili. Il piano Juncker va in questa direzione, ma per il momento non sembra avere la massa critica per costituire un vero punto di partenza. Vi è quindi la necessità di un programma più ambizioso e, al contempo, di un’effettiva integrazione delle sovranità nazionali sulla gestione di alcuni temi chiave della politica economica che richiedono grandi impegni di investimento.
CONCLUSIONI
Il fattore chiave in ogni “accomodante” politica di bilancio è l’investimento pubblico. Attualmente esso è ben al di sotto della parità in quasi tutti i paesi avanzati, certamente in Europa, in Italia come in Germania. In altre parole, occorre aumentare il rendimento del capitale privato, portando così al circolo virtuoso conosciuto con il nome di “crowding in”.
È improbabile che ciò avvenga nell’ambito del piano Junker a livello europeo, ma ogni Stato membro dovrebbe cercare di prevedere il proprio investimento pubblico alla luce del mercato europeo, o addirittura globale, cercando di attirare significativi finanziamenti privati a livello globale attraverso la garanzia di rendimenti più sicuri a lungo termine. In questi termini, e per questi scopi, anche un temporaneo aumento del deficit destinato a far partire questi programmi dovrebbe essere considerato accettabile.
Come osservato in precedenza, un vasto programma di investimenti pubblici infrastrutturali potrebbe essere attuato e finanziato in deficit senza creare un problema di sostenibilità dei debiti pubblici attraverso un finanziamento monetario palesemente condizionato a livello europeo. Condizionato in quanto temporaneo e soggetto a solidi comportamenti fiscali da parte degli Stati membri dell’eurozona volti a perseguire la riduzione del debito. Questo obiettivo sarà più facilmente raggiunto grazie all’aumento del PIL nominale, che è lo scopo specifico del programma. Molti dettagli tecnici del programma, e le sue esigenze condizionali, possono essere progettati in modo adeguato con il concorso degli altri governi e delle istituzioni europee.
Vi è certamente un serio ostacolo al perseguimento di questo programma di investimenti pubblici, almeno in Italia. Tale ostacolo è il progressivo deterioramento della capacità del settore pubblico di progettare ed eseguire progetti di investimento, sia a livello di governo centrale che locale. Gli anni ottanta hanno visto forse l’ultimo tentativo di un programma di investimenti pubblici basato su un’analisi costi-benefici estesa ed approfondita, (il cosiddetto FIO, o “fondo investimenti per l’Occupazione”). La mancanza di capacità operativa nella progettazione, analisi e valutazione degli investimenti è di per sé il risultato di una mancanza di investimenti nella costruzione di capacità nel settore pubblico. Una politica miope che è stata perseguita con notevole costanza, e che ci lascia oggi a contarne i costi. Ma non è affatto una tendenza irreversibile, e dovrebbe invece essere il fulcro di una riforma complessiva del settore pubblico.
Ampio estratto di un articolo inedito ed in corso di pubblicazione su una rivista economica internazionale