Una posizione espressa a titolo personale o un punto finora nascosto del contratto di governo Lega-5Stelle? È la domanda che aleggia intorno al “ritiro urgente del contingente dall’Afghanistan” richiesto a gran voce dal deputato pentastellato Manlio Di Stefano nel corso del dibattito alla Camera sulla fiducia all’esecutivo di Giuseppe Conte. Si tratterebbe di una novità inattesa e dagli effetti imprevedibili per l’attuale quadro delle alleanze internazionali. Più che sulle sanzioni alla Russia, infatti, la partnership con gli Stati Uniti, così come la credibilità in ambito Nato, dipende in gran parte dall’impegno dei soldati italiani all’estero. In ballo ci sono dossier come la Libia, il Mediterraneo e il programma F-35, il caccia di quinta generazione su cui l’Italia ha puntato per il futuro del proprio potere aereo.
Le parole di Di Stefano lasciano dunque più di qualche perplessità, su cui è opportuno che il governo, a partire dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta, faccia presto chiarezza. Inevitabilmente, infatti, l’adozione di una simile linea metterebbe in dubbio elementi rilevanti in quattro diversi ambiti: l’alleanza con Washington, il contratto di governo, l’interesse nazionale e il ruolo nella Nato. Ma andiamo con ordine.
Primo, il rapporto con gli Stati Uniti. Più che sulle sanzioni alla Russia, la stabilità della partnership con Washington per il nuovo esecutivo sembra dipendere dagli impegni militari all’estero. Come riportato dal corrispondente negli States per La Stampa, Paolo Mastrolilli, tra Pentagono e Casa Bianca si teme un eventuale ritiro italiano dall’Afghanistan, che “metterebbe a rischio l’intera collaborazione con gli Usa”. Nel caso di una riconsiderazione dell’alleanza con l’Italia, gli Stati Uniti sarebbero pronti a rimettere in discussione il nostro ruolo sulla Libia, lasciando dunque campo libero alla Francia di Emmanuel Macron, già dimostratasi desiderosa di fare la parte del leone sulla definizione dei nuovi assetti politici nel Paese nordafricano. Ma in ballo, scrive Mastrolilli, “ci sarebbe anche lo spostamento in Italia di asset dalla Gran Bretagna, oltre alla conferma della partecipazione al progetto F-35″. L’avvertimento è di quelli da tenere d’occhio.
Secondo, per quanto riguarda la coalizione, bisognerà capire se la posizione di Di Stefano è quella dell’intero M5S, e poi se questa è condivisa anche dalla Lega e rappresenta dunque la linea di governo. In tal senso, non c’è ancora grande chiarezza. Per quanto il “Via dall’Afghanistan” sia stato un mantra tradizionale del Movimento 5 Stelle, infatti, ciò non è confluito nel contratto di governo, in cui si parla di “rivalutare” le missioni “sotto il profilo del loro effettivo rilievo per l’interesse nazionale”. Sebbene possa essere soggetta a molteplici interpretazioni, una “rivalutazione” è tutt’altra cosa rispetto a un “ritiro urgente”. L’eventuale prevalenza del secondo sulla prima aprirebbe a quesiti interessanti sulla credibilità dell’intero contratto: quanto si discosterà il governo dai dettami del faticoso accordo raggiunto dai due partiti? È allora possibile procedere diversamente da quanto previsto dal documento che il premier si è impegnato a difendere?
Terzo, il ragionamento sull’interesse nazionale. Qualora il ritiro dall’Afghanistan fosse effettivamente giustificato da una rivalutazione dello stesso, occorrerebbe che venisse spiegato in che modo è avvenuto. Considerare una missione all’estero estranea all’interesse nazionale solo perché distante dai confini sembrerebbe piuttosto semplicistico. Per quanto la missione sia stata lunga e dispendiosa, è difficile non notare gli importanti ritorni che ne sono derivati in termini di peso politico e credibilità. Poi, bisogna anche ricordare che già il ministro Roberta Pinotti aveva annunciato la riduzione del contingente a dicembre dello scorso anno, proprio nell’ottica di un ri-orientamento dell’impegno militare verso il nord Africa (da cui la missione in Niger) per una più diretta corrispondenza agli interessi italiani. Eppure, ciò era previsto in maniera progressiva e, come è giusto che sia per gli impegni presi con gli alleati, di concerto con i partner e gli altri Paesi coinvolti. La ragione di ciò è da rintracciare non nella sottomissione agli interessi altrui, ma piuttosto nel rispetto dei propri, evitando di perdere quel prestigio internazionale che, quantomeno sull’impegno dei nostri soldati all’estero, siamo riusciti a conquistare.
Quarto, infine, la credibilità in ambito euro-atlantico. Piuttosto carente sul fronte della spesa nel settore difesa (nonostante gli impegni assunti), l’Italia ha potuto rivendicare in ambito Nato il deciso apporto in Afghanistan, per una missione in cui il nostro Paese è, da sempre, secondo solo agli Stati Uniti. Il lavoro dei militari italiani ha così permesso ai nostri governi di giocarsi una carta importante per dirigere le scelte dell’Alleanza verso aree di più diretto interesse per il Paese. Anche per questo, nel messaggio di congratulazioni a Conte, il segretario generale Jens Stoltenberg, ha ricordato che “l’Italia è un alleato impegnato e di alto valore, contribuisce alla nostra sicurezza comune e alla difesa collettiva in molti modi differenti”. E non è dunque un caso che la Nato abbia aperto un Hub strategico per il fronte sud a Napoli, e nemmeno che l’attenzione per la sicurezza nel Mediterraneo sia stata crescente nei dibattiti tra gli alleati. Certo ha contribuito l’evoluzione della minaccia, ma il ruolo pro-attivo dei rappresentanti italiani è stato efficace anche in virtù della credibilità dimostrata nelle missioni militari. Decisamente lontani dall’obiettivo di raggiungere il 2% del Pil nella Difesa entro il 2024, perdere tutto questo vorrebbe dire relegarsi a un ruolo marginale. D’altronde, è sulla “qualità” della nostra partecipazione che abbiamo puntato per poter dire la nostra nei diversi appuntamenti euro-atlantici; se l’impegno in Afghanistan venisse meno in modo improvviso e non concertato, questa potrebbe essere messa in dubbio da più di qualche alleato.
Ad ogni modo, è bene ricordare che la rivalutazione degli impegni all’estero da parte del governo è sempre legittima, e, anzi, benvenuta quando si parla di missioni delicate e sensibili. Eppure, occorre allo stesso modo tener presenti tutti i possibili effetti di decisioni di questo tipo e, soprattutto, considerare che si inseriscono in uno sforzo condiviso con altri Paesi e legato a doppio filo alla credibilità internazionale dell’Italia.