Tra la pressione russa ad est e la complessità del fianco sud, l’Alleanza Atlantica è chiamata a risolvere una crisi più profonda, quella che si estende all’interno dei propri confini. Agli scottanti dossier legati al burden sharing e all’incertezza della membership della Turchia, si aggiunge un elemento che la Nato non ha mai affrontato: l’imprevedibilità della presidenza statunitense. Il prossimo Summit dei capi di Stato e di governo, in programma a Bruxelles l’11 e 12 luglio, dovrà affrontare tutto questo. Airpress ne ha parlato con Douglas Lute, rappresentante permanente degli Stati Uniti alla Nato dal 2013 al 2017 e già consigliere di ben due presidenti americani per le questioni relative alla sicurezza nazionale, colui che per Washington ha preparato il delicato Summit in Galles nel 2014, che seguì lo scoppio della crisi ucraina, e quello della ri-organizzazione che due anni fa andò in scena a Varsavia. Con lui ci siamo soffermati all’interno del nuovo quartier generale della Nato, a margine del “Transatlantic strategic dialogue” organizzato a Bruxelles dall’Aspen Initiative for Europe e dall’Aspen Strategy Group degli Stati Uniti con il supporto di Airpress e di Microsoft.
Generale, partiamo dai rapporti transatlantici. Stiamo assistendo a una crisi tra le due sponde dell’oceano?
Credo che ci sia quanto meno una crisi in termini di fiducia, per lo più fondata sui primi diciotto mesi dell’amministrazione Trump. In quasi settant’anni di Alleanza Atlantica, infatti, l’impegno degli Stati Uniti è sempre stato affidabile. Ora, invece, stiamo assistendo a una Casa Bianca che ha realmente cambiato la narrativa su aspetti molto significativi per i rapporti transatlantici, dando priorità alla rottura dei valori tradizionali e agendo con un’imprevedibilità che la Nato ha sempre interpretato in modo contrario. Ritengo che questo tipo di leadership proveniente dagli Stati Uniti sia preoccupante per l’Alleanza, un’attività disruptive che emerge pubblicamente durante i vari vertici. Già a maggio dello scorso anno, il presidente Trump ha partecipato al Summit informale che si è tenuto qui al quartier generale della Nato. Dalla prospettiva dell’Alleanza, l’incontro è stato piuttosto improduttivo, e ora, tra poche settimane, il presidente sarà di nuovo qui. Nel frattempo però, all’interno della Nato un sacco di lavoro viene portato avanti.
Dunque attribuisce al presidente Trump la ragione principale delle difficoltà transatlantiche?
È la scintilla, ma sicuramente ci sono radici più profonde. Alcune di queste hanno a che fare in modo più ampio con le sfide multiple che l’Alleanza si trova ad affrontare. Sono molto diverse tra loro: alcune arrivano da est, con la Russia assertiva e aggressiva, mentre altre da sud, come la questione migratoria, il terrorismo e l’avanzata dell’Isis. Poi, c’è una sfida interna alla Nato, diretta contro i nostri valori fondativi e centrali. Il Trattato del Nord Atlantico individua tre principi di riferimento per l’Alleanza: democrazia, libertà individuale e Stato di diritto. È un fondamento comune che, se si osservano tutti e 29 gli Stati membri dell’Alleanza, non viene rispettato ovunque. Dunque, con sfide da est, da sud e dall’interno, il problema non arriva solo da Washington, ma è lì che l’immagine pubblica di tutto questo viene evidentemente amplificata dalla nuova amministrazione americana.
Tra i dossier del prossimo Summit che si preannunciano scottanti c’è il burden sharing. L’invito americano agli alleati affinché spendano di più si fa sempre più forte. Ma perché Trump pare rivolgersi con una certa insistenza soprattutto alla Germania?
La Germania è la maggiore economia europea e la più grande dell’Alleanza dopo gli Stati Uniti, un’economia in salute con un forte surplus di bilancio. Quando si sommano queste cose con quello che la Germania sta facendo rispetto a quote concordate, e non imposte, circa la spesa pubblica da destinare alla Difesa, il Paese appare “under performed”. La spesa tedesca per la difesa si aggira tra l’1,2% e l’1,5% del Pil, rispetto a un obiettivo del 2%. Considerando tutto questo, è la matematica a non permettere alla Germania di rispettare l’ambizione di essere un leader non solo militare ma anche politico dell’Alleanza. E credo che tutta la Nato guardi a Berlino affinché faccia dei passi avanti in questa direzione, almeno verso il grado che può raggiungere. I dati economici mostrano che può fare di più e i leader tedeschi oggi concordano di dover fare di più. Il problema qui riguarda un altro aspetto.
Ci spieghi meglio.
Il tema non appare divisivo: la Germania è d’accordo sull’esigenza di arrivare al 2%. La questione diventa però oggetto di frizione per il modo in cui questa under-performance nella spesa per la difesa si è trasformata in una questione politica tra Berlino e Washington. Ciò, dalla mia prospettiva, potrebbe non essere d’aiuto per gli obiettivi comuni, perché pubblicizza il dibattito rendendo difficile alla cancelliera rivolgersi alla propria coalizione di governo e spiegare perché occorre fare quello che viene richiesto e che la Germania si è impegnata a fare, cioè aumentare la spesa per la difesa. Si tratta di una responsabilità politica per cui i leader tedeschi dovrebbero presentarsi concordi con il presidente Trump, e ciò potrebbe essere molto contro produttivo.
Altro tema caldo è la Turchia, che pare stia scivolando verso la Russia. Quanto è grande la distanza tra Ankara e Washington?
Prima di tutto, occorre ricordare che la Turchia è da decenni un membro chiave dell’Alleanza, in particolare per le sue ambizioni geostrategiche e la sua collocazione geografica, all’incrocio tra Europa e Asia, tra nord e sud, tra est e ovest. In altre parole, Ankara resta un alleato di grande importanza strategica. Tuttavia, riprendendo la preoccupazione sui valori che ho menzionato precedentemente, se guardiamo all’attuale stato di salute della democrazia turca, si può certamente affermare che ci sono stati tempi migliori. Stiamo difatti assistendo alla transizione del Paese verso un regime più autocratico, centralizzato e meno democratico; e questa non è una buona notizia.
Poi c’è la questione degli assetti militari.
Certo. A quanto detto si aggiungono alcuni passi concreti, ugualmente pericolosi, che la Turchia sta intraprendendo ad esempio con la modernizzazione della propria difesa attraverso il sistema russo S-400. Si tratta di un sistema molto capace e questa sarebbe di per sé una cosa positiva per un membro dell’Alleanza. Il problema però è che tale sistema non potrà mai essere integrato con gli assetti che appartengono alla Nato. Qualora venisse impiegato, esso servirebbe solo la Turchia e non l’Alleanza, in un’ottica di capacità meramente nazionale. Qui sta il problema: ciò che la Nato ha sempre cercato di fare è acquistare sistemi che possano essere integrati con gli altri assetti, così che non servano solo un Paese, ma che possano contribuire alle operazioni dell’Alleanza e servire altre Nazioni. Al contrario, Ankara sta prendendo una decisione puramente nazionale che si preoccupa solo della Turchia.
Per contrastare tutto questo, il Senato americano sta proponendo di fermare la vendita degli F-35 alla Turchia. Le sembra una strategia giusta?
Non ho letto il linguaggio che viene utilizzato nel documento del Congresso, ed è dunque per me difficile giudicare in modo esaustivo. Ad ogni modo, mi sembra uno strumento di ripicca, come a dire “se fai questo, noi facciamo questo”; una sorta di punizione. Piuttosto, mi sento di dire che dotare la Turchia di un velivolo moderno e tecnologicamente avanzato sarebbe un contributo importante per l’Alleanza. Comprare gli F-35 significherebbe per la Turchia essere all’avanguardia tra le potenze mondiali per quello che riguarda il potere aereo, nonché in prima linea all’interno dell’Alleanza dato che il velivolo è assolutamente in grado di essere integrato tra gli assetti Nato. Per questo eviterei il concetto secondo cui, poiché vanno avanti su un determinato sistema, non possono essere integrati nella struttura complessiva. D’altronde, ciò non farebbe che aumentare il danno riducendo le capacità da altri punti di vista. Penso che ci siano altri modi per esercitare una sorta di influenza sulla Turchia e rendere chiaro ad Ankara che il contratto per gli S-400 con la Russia non è di aiuto.