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Cosa cambia con il vertice Nato di Bruxelles? Parla il generale Camporini

La Nato si è rafforzata. Le misure adottate al vertice di Bruxelles possono effettivamente aumentare la capacità dell’Alleanza di rispondere alle molteplici sfide che incombono sulla sicurezza dei suoi membri, ma del lavoro è ancora da fare. Parola del generale Vincenzo Camporini, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai) e già capo di Stato maggiore della Difesa, che abbiamo raggiunto per capire meglio le nuove iniziative della Nato. Dai “quattro trenta” alla mobilità militare, passando per l’Hub di Napoli e l’impegno in Afghanistan

Generale, il Summit di Bruxelles è iniziato con le nuove esternazioni di Trump sui ritardi degli alleati nella spesa per la difesa. A parte l’impatto mediatico, qual è l’effetto di tutto questo sulla collaborazione on the ground?

Pari a zero. La collaborazione tra reparti operativi, a qualsiasi livello, si fa su base di capacità professionali, a prescindere dalle posizioni politiche e dalle dichiarazioni. Se si conquista sul terreno il rispetto e l’attestazione di qualità, poco importa che sia italiano, francese, inglese o estone. Anzi, on the ground si vede con fastidio il clima di bega a livello politico che a volte si percepisce. Ricordo che quando ero in Afghanistan e all’interno del nostro contingente operavano reparti spagnoli, albanesi e americani, ci dava fastidio il contorno politico.

Tra le misure adottate dal Summit c’è la “Readiness initiative”: avere a disposizione, entro il 2020, 30 battaglioni meccanizzati, 30 gruppi aerei e 30 navi da guerra in grado di essere operativi in 30 giorni. Cosa cambierà per la prontezza operativa della Nato?

Si tratta di un’iniziativa che punta molto alla concretezza, più di quanto non si sia fatto nel passato con altre formule e diverse parole d’ordine. Rispetto a elucubrazioni politiche, è molto più facile da comprendere l’avere a disposizioni 30 gruppi di volo pronti a intervenire in pochi giorni. Su questo, tuttavia, emergono due problemi. Primo, si tratta di un’impresa non facilissima da realizzare. Secondo, una volta conseguita la prontezza operativa, si incontra la difficoltà del processo decisionale nell’Alleanza Atlantica. Questo, infatti, si basa sul consenso e dunque sul diritto di veto di ogni Stato. Che tale diritto non venga esercitato o sia limato nei fatti poco importa, dato che il processo richiede comunque molto tempo e appare piuttosto faticoso. Da qui, emerge un quesito fondamentale: quanto è efficace investire tante risorse ed energie in tale prontezza se poi il processo decisionale e politico è tale per cui occorre aspettare settimane prima di giungere a una decisione? Insomma, vale davvero la pena?

Ci spieghi meglio.

Si tratta di un problema tecnico a lungo dibattuto. I vari generali e ammiragli che si sono susseguiti nel ruolo di Saceur (Supreme allied commander Europe) hanno chiesto insistentemente un livello di autonomia maggiore, quantomeno per le azioni preparatorie da adottare in casi di tensione, esercitazioni o spostamenti di battaglioni. Il problema, in altre parole, è che i tempi a Bruxelles sono diversi da quelli per la prontezza operativa. Quest’ultima ha un costo, e occorre ragione se si vuole sostenerlo anche nel caso in cui non sia possibile sfruttarla per motivi procedurali.

Poi, dal vertice è arrivato un nuovo impulso alla mobilità militare, argomento centrale della rinnovata collaborazione Nato-Ue. Quanto è importante migliorare tale aspetto?

La mobilità militare è indispensabile per evitare di tenere tutte le risorse sul piede di guerra alla frontiera. Inoltre, migliora la capacità di fronteggiare un’eventuale crisi, permettendo l’invio di rinforzi e schieramenti rapidi. Su questo però, abbiamo due problemi (anche in questo caso). Il primo è infrastrutturale: le nuove infrastrutture vengono costruite senza tenere conto delle potenziali necessità dello strumento militare. Il secondo è invece di carattere burocratico, ed era molto meno avvertito durante la Guerra fredda quando la disponibilità al transito di truppe alleate era di gran lunga superiore. Poi, con il passare degli anni, le procedure si sono irrigidite, tanto che oggi si parla dell’esigenza di una “Shengen militare”, che permetta l’attraversamento dei reparti senza che si perdano in lunghezze. Recentemente, un reparto terrestre britannico ha impiegato quasi una settimana prima di avere tutte le carte in regole per attraversare la frontiera di un Paese alleato.

Il Summit ha ribadito l’impegno sui due fronti, est e sud. Dopo gli sforzi degli alleati meridionali (Italia in testa) la rilevanza del fronte sud è ormai acquisita in ambito Nato?

Il dato è acquisito, ma ci sono sfumature concettuali rilevanti. Secondo il pensiero di Bruxelles, mentre a est c’è una “minaccia”; a est ci sono dei “rischi”. Non si tratta di una differenza meramente lessicale. La minaccia si misura in hardware, in aspetti e assetti concreti, il rischio invece richiama a qualcosa di più politico, a instabilità e infiltrazioni. Da questo punto di vista, la differenza è sostanziale. In passato, a parte per l’attenzione alla flotta russa nel Mediterraneo durante la Guerra fredda, il fronte sud è sempre stato considerato meno rispetto a quello orientale. Per quanto dunque il dato sia acquisito, resta il rischio che il fianco meridionale possa essere considerato meno insidioso.

Eppure il Summit ha dichiarato la piena operatività dell’Hub di Napoli. È un passo in avanti?

Certo. La direzione strategica per il sud serve per avere presa diretta sui Paesi che si affacciano sulla nostra frontiera meridionale e che purtroppo non godono di una stabilità politica tale da dare garanzie. Se si dispone di un Hub che mantiene rapporti costanti con tutti i Paesi del fianco meridionale e del Medio Oriente, si potrà avere una maggiore consapevolezza di ciò che sta accadendo, evitando il rischio di trovarsi impreparati o fuorviati nelle proprie convinzioni come è accaduto con le Primavere arabe.

Il vertice di Bruxelles potenzierà inoltre il sostengo della Nato alle Forze di sicurezza dell’Afghanistan. Dopo tanti anni di missioni nel Paese, quali sono le ragioni di ciò?

Per l’Alleanza si tratta di riaffermare che gli obiettivi politici che ci si prefiggeva negli anni passati sono tutt’ora validi e che la situazione non è ancora soddisfacente. Può essere frustrante, ma lasciare le cose a metà significherebbe vanificare lo sforzo fatto.

E la partecipazione italiana?

Ho letto le dichiarazioni del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta sul tema, e mi sono sembrate in linea con le decisioni politiche prese in precedenza. La riduzione da 900 a 700 unità è già stata scritta, così come la scelta di farlo in maniera concordata e coordinata con i Paesi che si assumeranno maggiori responsabilità. Ci stiamo muovendo in una linea di continuità ottimale.

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