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Bene la missione di Tria ma il rapporto con la Cina merita (non poca) cautela

Di Carlo Torino
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Se non v’è alcun ragionevole motivo per ritenere che il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non abbia già maturato una visione nitida degli obiettivi strategici italiani, in relazione a quello che si preannuncia come un delicato viaggio diplomatico in Cina, entro la fine di agosto. (Tanto più che egli bene ne conosce e parla la lingua). E se l’iniziativa di un gruppo interministeriale voluto dal vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio, e ispirato dal sottosegretario per lo Sviluppo economico, Michele Geraci (economista e profondo conoscitore della superpotenza asiatica), costituisce un’apertura indiscutibilmente costruttiva verso un paese titolare del 14.8 per cento del prodotto interno lordo mondiale (espresso in dollari correnti: e con gli Stati Uniti ormai poco distanti al 15.6), e dal quale proviene oltre il trenta per cento della crescita globale. Tuttavia, non stupisce che leciti motivi di apprensione si insinuino qualora l’assertività geostrategica di Pechino, e nondimeno la peculiare concezione, per così dire “imperiale”, delle relazioni internazionali che essa sposa, vengano attentamente osservate. A tal proposito, qualche considerazione in merito a precedenti non troppo lontani può risultare di un certo interesse: e segnatamente intorno all’imponente progetto di sviluppo infrastrutturale Belt and Road Initiative (BRI).

In primo luogo, se non vi sono dubbi che Pechino intenda utilizzare le leve dello sviluppo infrastrutturale (e del credito) verso stati e regioni finanziariamente vulnerabili, imponendo di fatto la sua egemonia geoeconomica; meno note sono d’altronde le strategie attraverso le quali il gigante asiatico persegue ciò che il pensatore strategico indiano, Brahma Chellaney, ha tratteggiato come elementi fondativi di un grande unico disegno di «imperialismo creditizio» – o anche genericamente definito debt-trap-diplomacy. Non per niente, costituisce solo un lieve abuso terminologico definire la Repubblica popolare cinese come uno dei principali operatori finanziari distressed in ambito infrastrutturale. Come un recente studio del Center for global development di Washington (CGDV) fa opportunamente rilevare, negli ultimi anni si sono infatti verificate numerose occasioni laddove progetti gravati da insostenibili livelli di indebitamento, e così impossibilitati nel servizio del debito, hanno visto Pechino ricorrere a ben note soluzioni di debt-to-equity swap. In sintesi, gli investitori cinesi nella generalità dei casi non mostrano remore a passare dalla posizione giuridica di creditore garantito a quella di azionista: assumendo di fatto il controllo dell’asset. Così, è accaduto in Sri Lanka, nel caso del porto strategico di Hambantota, ove un debito complessivo di 8 miliardi a un tasso del 6 per cento (!) erogato dalla China Exim Bank (istituto controllato da Pechino: una delle tre policy bank del regime), s’è presto rivelato insostenibile. Le autorità cinesi, a quel punto decise a proseguire, hanno negoziato la conversione del proprio credito in quote di controllo dell’infrastruttura, divenendone in concreto azionisti unici, e garantendosene l’esclusivo utilizzo per novantanove anni attraverso un contratto di leasing che, in più di un suo articolo, evoca lontane eco di un passato coloniale che ritorna. Eventi simili hanno caratterizzato il coinvolgimento delle banche pubbliche cinesi in paesi come Gibuti – dove Pechino ha anche imposto la presenza di un contingente militare, a pochissima distanza da una base USA –, Montenegro, Pakistan (per via del controverso corridoio Cina-Pakistan), Laos, Malesia e Bosnia Erzegovina. Lo schema e gli strumenti sono in via generale gli stessi, si concedono prestiti significativi diretti sovereign-to-sovereign o sovereign-backed (assistiti da una garanzia pubblica), a tassi di mercato – e cioè fuori dai canoni del concessional lending osservati dalla banche di sviluppo multilaterali –, e sovente denominati in dollari o renminbi. Alle difficoltà incipienti del debitore, le autorità iniziano un processo di negoziazione che può nei diversi casi condurre al controllo dell’infrastruttura, o addirittura a ristrutturazioni che prevedano nuova finanza, ma con l’effetto di rendere il paese debitore totalmente dipendente dal governo cinese. Vi sono casi, impressionanti, di nazioni che riportano un’incidenza del valore del debito nei confronti della Cina fino al 90 per cento del debito estero complessivo.

Ora, la questione per il nostro paese è più complessa. Esiste un oggettivo problema in relazione all’andamento dei rendimenti di mercato connessi al nostro debito pubblico. Capital Economics, una società di ricerca indipendente, stima un livello del BTP decennale poco al di sotto del 4 per cento entro la fine del 2018, e oltre il 4.25 entro il 2019. È peraltro poco plausibile che le recenti pressioni sulla Bce, tese a far sì che l’istituto di Francoforte aumenti la sua esposizione verso i titoli di Stato italiani, riscontrino concrete adesioni. Più probabile, al contrario, un mero ribilanciamento “tecnico” della liquidità derivante dai titoli in scadenza. L’idea che la Cina possa aumentare l’esposizione verso il nostro debito (creando dunque una domanda che contribuisca a tenere sotto controllo il livello dei tassi) costituisce una prospettiva che risponde a una logica economica condivisibile ma, oltre una certa misura, rischiosa sotto il profilo degli equilibri politici internazionali (specie verso gli USA), e decisamente non auspicabile per la sicurezza delle nostre infrastrutture strategiche. Non occorre certo ricordare che la presenza di capitali asiatici nel Sud Italia va intensificandosi a ritmi formidabili, e in particolar modo nelle infrastrutture connesse al settore della logistica. Basti citare i piani di sviluppo – e le contestuali trattative con le banche creditrici – dell’Interporto campano (non certo un polo secondario per dimensioni e posizionamento geografico strategico).

Sarà perciò interessante conoscere le aspettative del governo cinese, in occasione della prossima missione del ministro dell’Economia. E sorprenderebbe non poco qualora non vi fossero richieste verso una maggiore apertura (e contendibilità) delle nostre infrastrutture critiche (energia, porti, logistica, telecomunicazioni, banche, sicurezza. Laddove certamente non occorre rammentare che società pubbliche cinesi sono già titolari di significative quote di controllo in asset strategici nazionali. Si pensi a Cdp Reti, la quale controlla gli investimenti partecipativi in SNAM, Terna e Italgas, e che ospita nella sua compagine azionaria il gruppo a controllo pubblico State-Grid Corporation of China con il 35% del capitale. Ma non si dimentichi Ansaldo energia, controllata da Cdp Equity e insieme dal gruppo Shanghai Electric. In definitiva, non sarebbe poi una cattiva idea suggerire al ministro dell’Economia un secondo viaggio negli Stati Uniti, dai quali certamente non ci separano insormontabili ostacoli linguistici.

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