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Che cosa nasconde il frenetico attivismo di Obama prima di lasciare la Casa Bianca

Ben oltre una rivalsa dell’ultimo momento contro avversari interni ed esterni oltranzisti e scorretti fino all’inganno e all’oltraggio personale, il pirotecnico fine d’anno e di mandato dell’artificiere Barak Obama preannuncia senza mezzi termini la sua volontà di restare a tempo pieno nella lotta politica quotidiana. Le clamorose iniziative alle Nazioni Unite contro gli estremismi israeliani, contro le ambiguità dei nuovi sceicchi di Riyadh e della re-islamizzazione integralista in Turchia, infine la cacciata di mezza ambasciata e uffici vari della Russia da Washington, avvertono anche i boss del partito democratico che non si accontenterà di presiedere fondazioni e ricevere lauree ad honorem. Comincerà invece proprio dalla battaglia interna al suo partito quella che non potrà non essere al tempo stesso una proposta attiva di riforma della politica per l’intero paese. Difficile dire che gli Stati Uniti non ne abbiano urgente bisogno.

Non è credibile che un personaggio dell’età e delle qualità politiche e diplomatiche dimostrate da Obama trasformi la Sala Ovale in una trincea di operazioni su scala globale, solo pochi giorni prima di uscirne per sempre. Non ha precedenti il suo impegno a cospargere di ostacoli e trappole il cammino che Donald Trump dovrà percorrere in casa e fuori fin dal primo giorno della sua presidenza. Non si tratta, però, d’ incursioni condotte nottetempo, in segreto o attraverso fedeli uomini di mano, nello stile di Putin o del medesimo Trump. Al contrario, quelli di Obama sono colpi improvvisi, non privi d’effetto, e tuttavia concreti nei contenuti e quanto mai pubblici, come dev’essere un’azione politica concertata e di lungo respiro. Ci sono i segni di una vera e propria strategia negli ultimi mesi della sua Presidenza, tanto diversa dalle cautele degli inizi rese a suo tempo sterili dall’estremismo dell’opposizione repubblicana.

Dice e fa sapere che al posto di Hillary Clinton avrebbe sconfitto Trump. Non ha mai fatto trapelare simili sospetti fino a che la corsa elettorale non è terminata come sappiamo. Né ha tentato di restarsene da parte. E’ invece rimasto disciplinatamente al suo fianco, l’ha sostenuta e incoraggiata, favorendo anche i successivi accordi con Bernie Sanders che dovevano portarle almeno una parte della sua dote di giovani e di entusiasmo. Ma adesso che Hillary è praticamente scomparsa, che il partito è lacerato e soggetto a gravi sbandamenti, mentre gli uomini che il nuovo capo dello stato chiama al proprio fianco nella formazione del governo lasciano sempre meno dubbi sulla pericolosità delle sue pur confuse intenzioni, Obama lascia intendere che non abbandona la politica attiva. Al contrario, se come Presidente ha mostrato il volto moderato, forzandosi ad equilibri di cui talvolta non era del tutto convinto, ora lascia intravvedere quello del leader sempre misurato ma di parte.

Se i commenti di alcuni dei suoi collaboratori più stretti non sono viziati dal wishful-thinking – e i gesti di Obama abbiam visto che sono forti e convinti -, nell’agone politico americano assisteremo presto agli scontri per un rinnovamento doppiamente imprevisto. Da una parte un presidente al cui confronto Nixon apparirebbe un personaggio etico e i Bush dei pacifisti; dall’altra un ex presidente che rinvia a tempi lontani la pensione dorata che l’attende, per assumere il ruolo di ispiratore e forse persino di primo campione in campo dell’opposizione. L’usura del sistema politico-istituzionale degli Stati Uniti non è nuova, da decenni veniva puntualmente segnalata dalla sempre più pigra affluenza alle urne degli elettori. Nella consultazione del novembre scorso, era apparsa oltremodo evidente fin dalle elezioni primarie nei due partiti. Il trionfo di Trump ne è stato semplicemente il culmine. Potrebbe scaturirne una piena rinascita.



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