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Come si muoverà Washington dopo l’ultimo test missilistico della Corea del Nord

Gli Stati Uniti hanno chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dopo il test missilistico eseguito dalla Corea del Nord martedì. Il vertice si terrà alle tre del pomeriggio di oggi, mercoledì 5 luglio, e si svolgerà a porte chiuse per discutere “le opzioni” da utilizzare contro la Corea del Nord.

ERA UN ICBM

Il punto è che gli analisti militari americani, che inizialmente avevano considerato il vettore lanciato martedì un “missile a raggio intermedio”, hanno rapidamente cambiato lettura e individuato il missile Hwasong-14 partito dal carrello di lancio mobile posizionato nel poligono di Banghyeon come un ICBM. Mai successo finora. L’acronimo tecnico definisce i missili balistici a gittata intercontinentale, ossia il livello massimo di tecnologia missilistica a disposizione di un esercito: la questione è da leggere soprattuto nell’ottica del programma atomico che il Nord sta spingendo, perché questi vettori sono tecnicamente in grado di trasportare testate nucleari per diverse migliaia di chilometri. Proiezione potenziale, fatta dagli esperti quasi immediatamente: sulla base di quel che è noto, ora Pyongyang potrebbe colpire con un Hwasong l’Alaska. Con quanta precisione, efficienza e certezza non è chiaro. La precisazione del NORAD, il North American Aerospace Defense Command: il missile al momento non è un serio pericolo per l’America, ma si sa che ogni test affina la tecnologia.

LO SHOW OF FORCE

Nella serata di martedì è circolata un’informazione proveniente evidentemente da qualche voce tra gli insider: gli Stati Uniti stanno preparando uno “show of force“, una dimostrazione di forza, una risposta muscolare alla violazione (ce ne sono già state, tra bombardieri strategici che hanno sorvolato la penisola coreana, gruppi da battaglia navali arrivati in zona e via dicendo). Intanto americani e sudcoreani hanno subito effettuato un’esercitazione missilistica “di precisione” in risposta al lancio di Kim a una decina di chilometri dalla DMZ, la zona demilitarizzata che taglia la penisola (tecnicamente ancora divisa dalla guerra). È parte dello “show of force“, un’attività per dimostrare la prontezza della reazione e marcare deterrenza: “Siamo pronti a difenderci” dice la nota del Pentagono.

LA MINACCIA AUMENTA

Rex Tillerson, il segretario di Stato americano, è stato chiaro: “È una nuova escalation per la minaccia” che il Nord rappresenta (nota: l’ammissione del segretario ha tolto definitivamente i dubbi alla dichiarazione ufficiale di Pyongyang, che aveva detto già che il missile testato era un ICBM, ma l’affermazione era stata valutata con cautela perché di solito questi proclami sono zeppi di propaganda). C’è una risoluzione del CdS Onu che vieta alla Corea del Nord di effettuare questo genere di test militari, lo ha ricordato anche il segretario generale Antonio Guterres condannando il gesto, ma a quanto pare il leader Kim Jong-un se ne infischia. Un aspetto che mette in dubbio la reale efficacia dei provvedimenti discussi alle riunioni simili a quelle in programma oggi.

COINVOLGERE LA CINA

L’obiettivo nevralgico degli incontri Onu è meno esplicito: forzare la Cina. Il presidente americano Donald Trump sta cercando da mesi di trovare la leva giusta coinvolgere Pechino, che è uno dei pochi Paesi che mantiene relazioni con il Nord (anche con interessi: è un cuscinetto di contatto con l’occidentale Seul), per ottenere una collaborazione più intensa – che oltre a essere potenzialmente risolutiva sulla crisi specifica, potrebbe aprire altri orizzonti di lavoro per le due più grosse economie del mondo. La Cina mantiene però un atteggiamento ambiguo: da Mosca, dove era in visita per un bilaterale con Vladimir Putin, il presidente Xi Jinping ha condannato il test balistico, ma ha chiesto – insieme a Putin, da sottolineare – che contemporaneamente allo stop del programma nucleare e militare nordcoreano si provveda a fermare le attività congiunte (esercitazioni e cooperazione in genere, leggi Thaad) tra Washington e Seul, che però per gli americani sono un asset strategico nel Pacifico (creato certamente anche in ottica di contrasto geopolitico alla Cina).

IL NON RITORNO: DOVE?

Il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha detto martedì che Pyongyang non deve spingersi oltre “al punto di non ritorno”, ma il concetto suona vago e con le mani legate. Se dovesse esserci un’azione militare, infatti, sarebbe proprio la Corea del Sud a soffrire il maggior (immane) numero di danni per le rappresaglie del Sud. È forse possibile, invece, che il punto di non ritorno se lo trovi davanti Trump, come sostiene, sentito dall’Associated Press, Patrick Cronin, un esperto di Asia del Center for a New American Security.

UNA SCELTA COMPLICATA PER DT

Il pallino torna di nuovo in mano agli americani: Trump a gennaio aveva scritto su Twitter che avrebbe impedito a Pyongyang di mettere a punto un’arma in grado di raggiungere gli Stati Uniti. E martedì ha tuonato che difenderà i suoi alleati, Seul e Tokyo.

Ora la narrativa dice “Alaska”, e molto spesso il presidente ha preferito dar ragione a questa piuttosto che agli analisti (che nel caso dicono qualcosa tipo ‘la tecnologia non è ancora perfezionata’). Che tipo di reazione avrà a questa apparente lesa maestà un commander-in-chief che ha basato la sua forza politica sul concetto muscolare di uomo solo al comando? Quando Trump si incontrò con Barack Obama nel briefing transizionale, l’ex presidente democratico gli disse che al momento la Corea del Nord era la più pervasiva minaccia che gli Stati Uniti si sarebbero trovati davanti (più dell’IS? Può essere, perché sulla scena nordcoreano ci sono coinvolte direttamente dinamiche internazionali, invece tutti odiano il Califfo e trovare una quadra per combatterlo è più semplice).

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