Anche stavolta, la velocità con cui archiviamo gli eventi è superiore al tempo che dedichiamo alla loro analisi. In occasione del G20 di Amburgo, c’è stato un torrente di notizie e di informazioni, che ha riguardato ogni aspetto del Summit: gli equilibri geopolitici e la consueta sintesi in termini di vincitori e vinti. Tutta l’attenzione degli analisti si è concentrata sul primo incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin e sull’isolamento degli Usa in materia ambientale. Ma il torrente informativo si è subito prosciugato: del G20 non se ne parla più fino alla prossima riunione.
Il comunicato ufficiale, come sempre, troppo lungo per essere studiato a fondo in pochi minuti: rimane nelle cartelline degli inviati, da portare a casa. Stavolta è un file di 37 mila battute, neppure diviso in paragrafi numerati per agevolarne la lettura, rispetto alle oltre 51 mila del vertice svoltosi in Cina a Hangzhou, il 5-6 settembre scorso. È un documento che va letto con attenzione, perché i cambiamenti che contiene sono davvero significativi.
In primo luogo, è cambiata la filosofia sottesa agli scambi commerciali: bisogna tenere i mercati aperti, ma il commercio deve essere reciprocamente e mutuamente vantaggioso. Si continua a combattere il protezionismo, comprese tutte le pratiche commerciali scorrette, e si riconosce il ruolo degli strumenti di legittima difesa commerciale. Si passa da una globalizzazione dei mercati fondata sugli squilibri strutturali negli scambi commerciali, con gli attivi reimpiegati sul piano finanziario, ad un assetto in cui il rapporto deve essere “reciprocamente e mutuamente vantaggioso”.
In secondo luogo, cambia la gerarchia delle relazioni commerciali internazionali: mentre finora tutto il processo di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti era guidato dallo sviluppo del multilateralismo nell’ambito del Wto, ora si passa all’enfasi sul bilateralismo e sugli accordi regionali e plurilaterali, che devono “complementare” quelli multilaterali tipici del Wto.
Le triangolazioni del passato tra produttori di materie prime, economie prevalentemente manifatturiere a basso costo e Paesi fornitori di servizi avanzati non è sostenibile: porta alla spoliazione dei primi, soprattutto in Africa, visto che non sono in grado di fare cartello come è avvenuto in passato nel caso del petrolio; induce forme di moderna schiavitù nel lavoro, dove c’è una ampia disponibilità demografica a costi infimi, con la concentrazione della popolazione in megalopoli industriali ingestibili dal punto di vista infrastrutturale e sociale; produce lo spostamento da Sud verso Nord di masse enormi di popolazione alla ricerca di una esistenza migliore.
Tanto più la produzione manifatturiera si sposta verso le aree del mondo demograficamente più prolifiche per sfruttarne il lavoro a basso costo, tanto più il processo di inurbamento che ne deriva diviene inarrestabile e comporta imponenti migrazioni.
Si affronta, a questo punto, il tema cruciale della sostenibilità del “global supply chain”, il sistema globale di produzione in cui interagiscono tutte le economie del pianeta al fine di assicurare il risultato economicamente più vantaggioso per i consumatori e più lucroso per le imprese: c’è sempre, infatti, qualcuno disposto a lavorare di più, accontentandosi di meno. E tutte le ricerche di ottimizzazione del sistema produttivo, in questi anni, hanno cercato di minimizzare i costi del lavoro.
Servono invece standard comuni, in termini di lavoro, di ambiente, e di diritti umani: c’è l’impegno ad eliminare completamente il lavoro minorile per il 2025, quello forzato e le moderne forme di schiavitù. Salari giusti e dignitosi (fair and decent wages), insieme al corretto dialogo sociale, rappresentano altrettanti cardini per un sistema di produzione globale sostenibile.
C’è da trasecolare: si è finalmente compreso che il sistema di sfruttamento impostato con la globalizzazione non è più gestibile. Gli americani lo hanno capito: perdono posti di lavoro nella manifattura, non sostituibili nel settore dei servizi. Ma lo hanno capito anche i cinesi e gli indiani: le delocalizzazioni stanno colpendo anche i loro Paesi, dopo averli favoriti. Si trovano a che fare anche loro con milioni di disoccupati e di aziende che chiudono.
C’è un ulteriore punto su cui si concentra l’attenzione del documento: l’integrazione, attraverso le nuove forme di comunicazione digitale, delle micro, piccole e medie aziende nel sistema globale di produzione. Sembra un passaggio fondamentale, perché consente di utilizzare al meglio le capacità lavorative diffuse, a livello artigianale, senza dover cambiare modelli organizzativi. Le grandi fabbriche, i grandi agglomerati urbani, sono modelli disfunzionali, per via delle esternalità negative cui danno luogo.