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L’Italia può chiudere i porti ai migranti? Sì. Report Ispi

Di Ispi
Migranti

Pubblichiamo una serie di pillole sulle migrazioni con il rispettivo fact checking a cura dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. Qui il primo, qui il secondo, qui il terzo, qui il quarto, qui il quinto, qui il sesto

Si può vietare l’ingresso nei porti italiani alle navi straniere con migranti? SÌ.

È possibile affermare che l’Italia non sia necessariamente e a priori l’unico “luogo sicuro” dove sbarcare le persone salvate una volta portata a termine un’operazione SAR (search and rescue) da parte di una nave che non batta bandiera italiana. Sul piano del diritto internazionale, dunque, l’Italia avrebbe gli strumenti per affermare legittimamente che non dovrebbe essere considerata “di default” il luogo in cui sbarcare i migranti salvati nel Mediterraneo centrale.

Vanno però al riguardo evidenziate alcune zone grigie. Per esempio, le convenzioni UNCLOS, SOLAS e SAR stabiliscono l’obbligo di assistere le persone in pericolo in mare e di condurre i sopravvissuti in un “luogo sicuro geograficamente vicino”. Nella designazione di luogo sicuro, il comitato esecutivo dell ’UNHCR ha precisato (conclusione n. 23 del 1981) che in quel luogo non solo deve sussistere il rispetto dei “bisogni umani essenziali (vitto, alloggio e necessità mediche)”, ma che debbano essere rispettati i diritti umani e quelli dei rifugiati – in particolare tutelando il diritto di non refoulement (non respingimento). Al momento, però, l’assenza di una chiara definizione vincolante di luogo sicuro, e di un accordo su quali stati lo siano, crea incertezza anche rispetto alla recente posizione assunta dall’Italia.

A giocare a favore dell’Italia è invece il fatto che la convenzione SAR prevede che a coordinare le operazioni di soccorso e salvataggio sia il paese cui compete quel tratto di mare. In teoria, negli anni precedenti molte operazioni di salvataggio sarebbero dunque state competenza di Malta – anche nel caso di barconi che si avvicinassero a Lampedusa, isola italiana che si trova all’interno della zona SAR maltese.

Oggi però i salvataggi vengono spesso effettuati a ridosso delle acque territoriali libiche, dunque nella zona SAR della Libia. Essendo evidente che la Libia non possa essere considerata “luogo sicuro”, e con Malta che si tira indietro giustificandosi con l’impossibilità di accogliere nuovi migranti viste le dimensioni dell’isola (su cui abitano poco più di 430.000 persone), la responsabilità ricade sulle autorità italiane.

Nella sostanza, il nodo è di natura principalmente politica. Se l’Italia desse davvero seguito alla dichiarata intenzione di negare l’accesso ai propri porti a navi battenti bandiera straniera, e gli altri paesi europei non decidessero di sostituirsi all’Italia, si potrebbe correre il rischio di tornare a una situazione simile a quella dell’inizio del 2015. In quei mesi alla missione italiana Mare Nostrum si era sostituita la prima versione dell’operazione europea Triton, che aveva arretrato il baricentro dei salvataggi a ridosso delle acque italiane. In coincidenza dell’inizio di Triton erano aumentate le morti in mare, fino al tragico naufragio nel Canale di Sicilia del 18 aprile, nel quale persero la vita tra le 700 e le 900 persone e che convinse l’Europa a spostare le operazioni di Triton molto più a sud.

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