Lo Stato è ormai a un passo dal diventare primo azionista di controllo del Monte dei Paschi di Siena. Il 28 luglio sono finalmente stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale i due decreti che consentiranno l’attuazione della ricapitalizzazione precauzionale, cioè della procedura che di fatto ha consentito, all’interno della cornice delle regole del bail-in (sebbene in forma di eccezione alle stesse), al Tesoro di salire al controllo dell’istituto senese di Rocca Salimbeni iniettandovi soldi pubblici.
IL BURDEN SHARING
Tutto questo, però, dopo il burden sharing, ossia dopo la penalizzazione di azionisti e obbligazionisti subordinati della banca, con i primi che saranno diluiti e i secondo che subiranno la conversione dei titoli in equity. Uno dei due decreti appena pubblicati in Gazzetta, non a caso, fissa per Mps un aumento di capitale da 4,47 miliardi, che è appunto il valore della conversione dei bond subordinati in azioni. Nelle slide pubblicate dal Monte dei Paschi all’inizio di luglio si parlava di 4,3 miliardi, quindi di un ammontare appena più basso per la conversione. Il decreto fissa, inoltre, a 8,65 euro il prezzo delle singole azioni di nuova emissione da attribuire ai bondholder nell’ambito dell’operazione che riguarda i titoli subordinati. Nella nota stampa in cui Mps ha spiegato i dettagli dell’emissione delle azioni ha fatto sapere di attendersi di rientrare in Borsa in autunno (le azioni e le obbligazioni sono sospese a Piazza Affari dal dicembre del 2016).
QUANTO PAGA LO STATO
A questi 4,47 miliardi se ne aggiungono altri 3,85, sanciti dall’altro decreto appena pubblicato in Gazzetta, che rappresentano i titoli sottoscritti dal Tesoro, destinato così a salire al controllo della banca guidata dall’ad Marco Morelli con una partecipazione del 53,5 per cento. In questo caso, il prezzo di sottoscrizione sarà pari a 6,49 euro per ogni singolo titolo, vale a dire con uno sconto del 25% su quello di conversione dei subordinati. Il grosso delle obbligazioni da convertire è rappresentato dal bond cosiddetto Antonveneta decennale emesso nel 2008, del valore nominale di poco più di 2,1 miliardi. Poiché tale strumento è diffuso soprattutto tra i piccoli investitori retail, è stato deciso già dallo scorso dicembre, nel decreto salva risparmio varato dall’esecutivo Gentiloni, che chi lo possiede potrà essere rimborsato dallo Stato, a patto che le obbligazioni in questione siano state comprate prima della fine del 2015. L’Europa ha tuttavia più volte insistito perché questo ristoro sia limitato ai soli casi di vendita con frode (il cosiddetto misselling). Il valore massimo di tale rimborso è stato già fissato in 1,5 miliardi di denaro pubblico: ipotizzando che vengano spesi tutti per sostituire le azioni (in arrivo dalla conversione) dei piccoli risparmiatori con meno rischiose obbligazioni non subordinate, il Tesoro salirebbe intorno al 70 per cento dell’istituto senese.
LE VENETE
Per due decreti che finiscono in Gazzetta, uno viene approvato in Parlamento. Si tratta di quello sul salvataggio delle banche venete, che il 28 luglio ha ottenuto il via libera definitivo dal Senato. Il sì di Palazzo Madama al decreto, sul quale il governo Gentiloni ha posto la fiducia, è arrivato con 148 voti favorevoli – 91 i no, nessun astenuto – e con una coda di polemiche tra Movimento 5 stelle e Pd. I pentastellati, al momento delle dichiarazioni di voto finale, hanno gettato centinaia di banconote false da 500 euro in Aula urlando contro il Pd. Da ricordare che il salvataggio, tra le altre cose, prevede il passaggio della parte buona della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca (fondamentalmente depurata dei prestiti più problematici) al prezzo simbolico di 1 euro a Intesa Sanpaolo, nell’ambito di una complessa operazione che prevede un impegno pubblico fino a 17 miliardi. “Il provvedimento tutela risparmiatori, lavoro imprese. Un salvataggio difficile e necessario finalmente in porto”, ha ribadito il premier Paolo Gentiloni.