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Manovra, come evitare un buco nell’acqua

Pier Carlo Padoan, Manovra

Gli economisti spiegano che quando il mercato è ‘sottile’, singoli movimenti delle variabili sono in grado di determinare vaste conseguenze: così in agosto, con l’informazione economica rarefatta, un paio di positivi dati Istat – produzione industriale e andamento del PIL – hanno suscitato alcune reazioni di natura politica che stanno addirittura condizionando le basi della futura legge di bilancio 2018.

Dalle dichiarazioni del ministro dell’Economia e del presidente del Consiglio, parrebbe di intravvedere una già articolata ‘ossatura’ della legge di bilancio, con l’indicazione non solo delle grandezze ‘macro’, ma addirittura dei capitoli di spesa, cioè dei settori e/o categorie beneficiari delle ‘scarse’ risorse disponibili. Ma prima ancora di lamentarci per la totale mancanza di rispetto delle regole – tavoli di confronto, dialogo sociale, ecc. – in vista della preparazione della ‘manovra d’autunno’ è bene mettere in fila i problemi con un criterio di priorità e soprattutto, sciogliere un nodo di fondo: sarà una ‘manovrina’ di galleggiamento? Volta a traghettare Governo e Parlamento verso le elezioni politiche del prossimo anno? O sarà una manovra ambiziosa, finalizzata a far crescere il Paese di oltre il 2% il prossimo anno? Soglia minima, va chiarito, per consentirci di non perdere di vista il gruppo dei Paesi ‘forti’ dell’Eurozona.

Come confederazione rappresentativa di manager e quadri professionali, ci batteremo perché valga quest’ultima impostazione. E abbiamo sentito il bisogno di intervenire nel dibattito pre-manovra, proprio per evitare il rischio di ‘manovrine’ tappabuchi, spesso inutili quando non dannose se mosse da suggestioni pre-elettorali. Le intenzioni sono sicuramente buone, così come la scelta di puntare tutto sull’occupazione: “Le risorse – afferma Padoan – dovranno essere concentrate su misure per incentivare le assunzioni dei giovani…per confermare le agevolazioni a sostegno degli investimenti privati, per proseguire nel sostegno agli investimenti pubblici e per per potenziare gli strumenti contro la povertà”. Ma, come ha detto il capo economista del centro-studi Nomisma, “per ripianare le devastazioni della Grande Recessione con gli investimenti, oltre che della mano esperta del ministro dell’Economia nel salvaguardare i conti pubblici, l’Italia ha bisogno di riforme di struttura più ambiziose del semplice palliativo degli incentivi”.

Ecco il punto è proprio questo: gli interventi di cui si parla in questi giorni sono diretti a creare più occupazione ‘incentivando’, forse in modo permanente, le assunzioni di giovani. E’ questo il volano giusto per far ripartire l’economia? Per recuperare competitività al sistema industriale? Non ne siamo affatto sicuri.

Come Cida abbiamo messo nero su bianco proposte di politica economica articolate e sostenibili e per farlo ci siamo concentrati sul ‘core business’. Per i privati è la crescita delle imprese, dando ruolo e peso ai manager che vogliono investire le proprie risorse nell’azienda per la quale hanno lavorato. Vogliamo cioè allargare quella base imprenditoriale che langue, che è sostanzialmente vecchia e che nessun incentivo farà tornare agli Anni 60. Per il pubblico ci siamo chiesti cosa lo Stato deve produrre: di fronte alla mole impressionante di tasse tributi crescenti, quali servizi deve erogare con efficienza e competenza?. La sanità, la scuola, la pubblica amministrazione, la lotta alla povertà, l’assistenza ai più deboli. Ecco dove indirizzare le risorse, tornando ai fondamentali dello Stato sociale e lasciano al privato lo spazio per agire secondo lo spirito, rinnovato, dell’imprenditore illuminato.

Sì, è un disegno con venature utopistiche, ma lo abbiamo a lungo meditato e preparato per sottoporlo, a settembre, all’opinione pubblica ed alle forze politiche e sociali.

Siamo pronti a confrontarci con il Governo e siamo confidenti che le decisioni non siano state ancora prese, comprese quelle sull’età pensionabile e sulle aspettative di vita, un problema di enorme impatto sociale, cancellato dal dibattito con una frasetta di un viceministro. Un po’ poco argomentata, un po’ troppo superficiale. Così come non abbiamo assistito a ragionamenti seri di politica industriale in merito alle mire cinesi sulla FCA che pur produce, e tanto, in Italia, anche se ha testa e cuore altrove. Né si è ancora capita la sorte di TIM, delle telecomunicazioni italiane, divenute terreno di conquista dopo essere state eccellenza in Europa e nel mondo. Per non parlare del destino di Alitalia e dei suoi 12mila dipendenti. O dell’Ilva entusiasticamente ceduta agli indiani. Prima di confezionare l’ennesimo pacchetto di incentivi, allora, è bene scorrere alcune cifre fornite dal Mise: ad oggi sono ancora 162 i tavoli di crisi aperti presso il ministero dello sviluppo economico. Vertenze che riguardano un totale di quasi 148 mila persone.


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