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La vittoria irachena a Tal Afar contro Isis, il ruolo dell’Iran in Siria e il dilemma di Trump

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Ad appena otto giorni dall’inizio dell’offensiva irachena su Tal Afar, una delle ultime ridotte dello Stato islamico in quella che è stata per tre anni la porzione orientale del califfato, la bandiera irachena già sventola nel centro della città. La vittoria, ancora non ufficializzata per via della persistenza di sacche in mano ai jihadisti nei distretti nordoccidentali, è netta ma circonfusa da un’area di mistero. I circa 2 mila difensori infatti non hanno, come a Mosul, resistito ad oltranza e si sono letteralmente volatilizzati, sollevando il sospetto di un’intesa segreta. Tal Afar è una città a maggioranza turkmena, e la Turchia di Erdogan aveva ammonito gli iracheni di non indulgere in violenze eccessive contro la popolazione civile rimasta, poche migliaia a fronte dei 200 mila abitanti insediati prima della folgorante conquista delle bandiere nere del 16 giugno 2014.

Come hanno potuto constatare i reporter di Reuters presenti in città, a Tal Afar non solo non c’è anima viva, ma mancano del tutto i corpi dei combattenti jihadisti, come se ne trovarono a migliaia nelle strade di Mosul. Le forze irachene – composte dalle divisioni dell’esercito regolare (Isf), dalla “golden division” addestrata dagli americani, dalla polizia federale e dalle Unità di mobilitazione popolare sciite, spauracchio di Erdogan – hanno potuto avanzare indisturbate in 27 dei 29 distretti della città, espugnando sabato la cittadella ottomana ormai in rovina. Ma delle schiave yazide, catturate a migliaia nei 100 giorni di conquiste jihadiste del 2014, nemmeno l’ombra.

Si può quindi presumere che lo Stato islamico abbia effettuato una ritirata strategica verso la vicina Siria, dove è ancora forte la sua presenza nelle province occidentali a ridosso del’Eufrate e dove potrebbe essersi rifugiato mesi fa il califfo Abu Bakr al Baghdadi in fuga dalla roccaforte di Mosul. Oppure, come dichiarano gongolanti i generali iracheni, lo Stato islamico non ha semplicemente più capacità di comando e controllo, ed è solo la pallida ombra di quell’invincibile e fiero esercito che solo tre anni fa sbaraglio’ le truppe regolari di Baghdad espugnando un terzo del territorio iracheno e arrivando a minacciare persino la capitale.

Sta di fatto che un altro caposaldo dell’ormai ex califfato è caduto, e Washington può incassare un nuovo successo nella sua strategia irachena dopo quello assai più sofferto rappresentato dalla liberazione di Mosul. Ora l’attenzione di Washington può concentrarsi sul fronte siriano, dove è in pieno corso l’offensiva per liberare Raqqa, la capitale dello Stato islamico assediata dalle forze curde. E qui, proprio come in Iraq, si concentra la minaccia più appariscente della fase post-Isis: la presenza delle forze iraniane che, nell’ottica di Teheran, dovranno assicurare che l’assetto della regione siro-irachena nella prossima stagione sia favorevole all’Iran. Un bel dilemma, per Donald Trump e la sua squadra, che nel mondare il Medio Oriente dalla velenosa presenza degli estremisti sunniti stanno facendo un gran regalo ai loro irriducibili avversari sciiti.


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