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Perché il futuro di Roberto Maroni in Lombardia è nelle mani di Matteo Salvini

Le prossime elezioni in Sicilia e il (non) dibattito sulla legge elettorale non scaldano molto i motori in vista del rinnovo della presidenza e del consiglio regionale della Lombardia, ma cominciano a delinearsi con maggior chiarezza i contorni delle candidature e delle alleanze. Il quadro è reso più complesso dagli equilibri nazionali, ancora incerti sia sul versante del centrodestra che su quello del centrosinistra.

La candidatura di Roberto Maroni, che potrebbe essere indebolita da una ipotetica condanna in primo grado per un viaggio, peraltro mai effettuato, di una collaboratrice al tempo di Expo 2015, è sulla carta favorita ma quella del suo probabile avversario, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, non è affatto da sottovalutare. Il bilancio della gestione regionale di Maroni non è esente da limiti e, soprattutto, dalla mancanza di un progetto identitario di ampio respiro ma non è segnato da vicende tali da creare una reazione di rigetto da parte dell’elettorato.

La Lombardia, come Milano, non è priva di criticità ma è una realtà in grado di garantire, a prescindere dalle maggioranze di governo, un livello di efficienza accettabile. La sanità, pur scossa da episodi non edificanti e da difficoltà di implementazione delle misure assunte per un sistema integrato di cura per le situazioni di maggior fragilità, come quella degli anziani, mantiene una qualità di prestazioni superiore al resto del Paese.

Le maggiori difficoltà di carattere strutturale si registrano nella rete dei trasporti ferroviari interprovinciali (qui si fanno sentire anche i ritardi nella realizzazione della Pedemontana) e in particolare coinvolgono spesso la massa dei pendolari che gravitano sulla “Grande Milano”. La gestione del mercato del lavoro ha dato risultati positivi, soprattutto sul terreno fondamentale delle politiche attive. La rivendicazione di uno Statuto speciale per la Lombardia e soprattutto di una maggior disponibilità di risorse nei confronti dello Stato centrale – che si sostanzia in un referendum (peraltro privo di effetti concreti immediati) – è certamente condivisa dalla grande maggioranza dei cittadini lombardi e sarà votata, con i necessari distinguo, anche da una parte consistente dell’opposizione.

In questo caso il successo politico del governatore sarà misurato dalla percentuale di votanti che si recheranno alle urne. Ma questo conferma che nelle realtà più “normali” esistono, come è logico che sia, anche significative convergenze tra le maggiori forze politiche. Per questo sarebbe assai positivo se il confronto elettorale avvenisse sulle cose concrete da fare, sui temi della sanità e dell’assistenza, del trasporto dove è necessario procedere alla realizzazione di un sistema integrato pubblico-privato non solo tariffario che coinvolga anche i grandi centri urbani, sull’edilizia popolare che richiede assieme al reperimento di nuove risorse anche un coordinamento e una efficace razionalizzazione degli interventi della regione e dei comuni.

La recente vicenda delle vaccinazioni obbligatorie, che è stata gestita da Maroni con equilibrio rinunciando a quello che sarebbe stato una incomprensibile conflitto di poteri con lo Stato, ha fatto però emergere un atteggiamento opposto dal segretario della Lega Matteo Salvini che ha messo in luce la volontà di affermare una linea di ostilità totale al governo al di là dei contenuti e senza preoccuparsi troppo di come la pensano gli alleati, a partire da Silvio Berlusconi. Non è la prima volta che ciò accade.

Questo vuol dire che l’obiettivo principale di Salvini è solo quello di conquistare la maggioranza di voti nel’ambito di una futura alleanza per poter esprimere il candidato primo ministro. Insomma o tutto o niente ma, se così stanno le cose, vuol dire che la conferma di Maroni alla guida della Lombardia per Salvini è certo un fatto importante ma non prioritario. A questo punto diventa problematico pensare che una coalizione moderata in Lombardia che per avere buone probabilità di vincere dovrebbe contenere, oltre a Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, gli alfaniani e lo stesso Stefano Parisi con Energie per l’Italia, possa essere considerata una vicenda indipendente dalle alleanze che si presenteranno alle elezioni politiche, magari tenute lo stesso giorno di quelle regionali.

Non è che lo schieramento di centro sinistra se la passi benissimo, ma è quello che, almeno in Lombardia, ha meno da perdere. Soprattutto Giorgio Gori è diverso dai candidati di bandiera espressi dal centrosinistra negli ultimi vent’anni. Il fatto che lo stesso Gori abbia dato un giudizio equilibrato delle passate gestioni di Roberto Formigoni, riconoscendone anche i meriti, sia stato violentemente attaccato dalla sinistra radicale che ha preteso e ottenuto le primarie per la scelta del candidato, lo mette in luce come un soggetto propositivo che fa dei contenuti la linea politica discriminante. Inoltre viene da una esperienza di governo a Bergamo, una delle città più importanti e meglio amministrate della Lombardia. Le primarie, una volta evitata una candidatura separata della sinistra di Massimo D’Alema, non dovrebbero essere per lui un grande problema.

La partita è aperta ma non si gioca solo in Lombardia.

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