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Comey, Cina, repubblicani, neonazisti e Trump. Tutte le zampate di Bannon

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“Il Grande Manipolatore”, questo il titolo della copertina che il Time una volta ha dedicato a Steven Bannon. Ed è soltanto il più celebre degli epiteti che la stampa e gli osservatori americani (e del mondo) hanno riservato a uno dei principali animatori della campagna elettorale di Donald Trump lo scorso anno, poi Chief Strategist del Presidente fino allo scorso agosto. “Lo Svengali di Trump”, è stato definito un volta con un’allusione all’ipnotizzatore uscito dalla penna George du Maurier, oppure “Propagandist-in-chief”, o “the Grim Reaper” e chi più ne ha più ne metta. Tanto livore non può che nascondere un profondo interesse per Bannon. Così il decano del giornalismo televisivo Charlie Rose ha pensato di intervistarlo domenica sera per “60 minutes” (qui il video), storica trasmissione della CBS. Bannon come definirebbe se stesso, dunque? “Uno street-fighter”, ecco una delle prime formule a effetto utilizzate nella sua prima intervista televisiva dall’ex direttore di Breitbart News – sito web di informazione di destra che ora è tornato a presiedere. Un “combattente di strada” che mena fendenti a destra e a manca.

BANNON VS. I REPUBBLICANI

E allora partiamo dalla destra, perché Bannon ha accusato innanzitutto “l’establishment repubblicano” di voler “annullare” di fatto il risultato delle elezioni presidenziali del 2016 vinte da Trump battendo la democratica Hillary Clinton (oltre a 18 sfidanti repubblicani durante le primarie). Personalità del Partito dell’Elefante come Mitch McConnell (attuale leader della maggioranza al Senato) e Paul Ryan (presidente della Camera dei rappresentanti), infatti, “non vogliono che l’agenda populista e nazionalista in economia di Trump sia implementata. È davvero ovvio”. McConnell, ricorda Bannon, al primo incontro con il neoeletto Trump gli chiese di smetterla con la retorica del “drain the swamp”, ciOè l’attacco alla palude partitocratica creata in combutta da élite politiche repubblicane e democratiche. Ora che è fuori dalla Casa Bianca, Bannon giura di avere ancora maggiore libertà per stanare i sabotatori che – dice – sosterranno il Presidente soltanto se saranno costretti a farlo dallo scrutinio dell’opinione pubblica conservatrice. Quella che Breitbart punta a informare e mobilitare.

L’establishment repubblicano, nella ricostruzione dell’ex chief strategist, ha già frenato Trump. Convincendolo per esempio che l’azione parlamentare doveva partire dalla cancellazione e dalla sostituzione dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Obama. “Paul Ryan e questi signori – racconta Bannon – sono venuti e ci hanno detto: ‘Lo abbiamo fatto per sette anni. Abbiamo votato contro l’Obamacare per 50 volte. Sappiamo come abrogare e rimpiazzare questa legge. Dobbiamo iniziare da qui’”. Poi promisero alla Casa Bianca che per agosto avrebbero fatto approvare dal Congresso i tagli delle tasse e entro la fine del 2017 avrebbero portato a casa una legge sulle infrastrutture. Peccato che i Repubblicani in Congresso non abbiano ancora trovato nemmeno la maggioranza per abolire l’Obamacare.

BANNON VS. TRUMP

Bannon riserva svariati elogi al Presidente Trump. Gli riconosce di essere “un combattente”, perciò a suo agio con uno “street-fighter” come lui. Lo definisce pieno di senso dell’umorismo. Ricorda per esempio che quando trapelarono i suoi commenti offensivi sulle donne fatti anni fa in privato assieme al conduttore televisivo Billy Bush, Trump convocò una riunione per decidere come comportarsi e l’allora presidente dei Repubblicani, Reince Priebus, gli disse che aveva “solo due scelte”: “O abbandoni oggi la corsa per la Casa Bianca, oppure perderai le elezioni con il maggiore margine che si sia mai registrato nella storia americana”. La risposta ironica di Trump fu: “Questo è un grande modo per iniziare la nostra conversazione!”. L’ex immobiliarista decise, come è noto, di continuare a correre, dimostrando più volte – sempre secondo Bannon – la stoffa del vero leader, che sa distinguere ciò che è essenziale da ciò che è marginale (a differenza di Hillary Clinton che “non è così intelligente come invece tutti dicevano”), e che non si piega sotto i colpi della grande stampa. Detto ciò, la presidenza di Trump nasce con “un peccato originale”: la scelta, dopo 48 ore, di trovare “un compromesso” con una parte dell’establishment nel tentativo di mettere su una squadra di governo. Tuttavia “il più grande errore di Trump” è stato un altro, e cioè il licenziamento nello scorso luglio di James Comey, il direttore dell’FBI (già negli anni di Obama). Charlie Rose chiede a Bannon: è vero che in privato lo ha descritto come “il più grave errore nella storia politica”? Risponde sornione l’ex chief strategist: “Questa espressione è troppo bombastica, perfino per i mIei standard. Tutt’al più ‘della storia politica moderna’”. Qui dunque il vero punto debole del Presidente: “Lui ha pensato, almeno all’inizio del suo mandato, che ogni problema fosse sempre una questione di personalità. ‘Se potessi cambiare questa personalità…’, ‘Se potessi portare questo signore dalla mia parte, allora raggiungerò il mio obiettivo’. A contare, invece, è la logica delle istituzioni. Specialmente a Washington”.

BANNON VS. LA CINA

Sulla politica estera, Bannon riconosce che Trump è circondato da consiglieri di altissimo livello, ma non nasconde la sua personale priorità: Washington dovrebbe avviare un confronto muscolare con Pechino. “Le élite di questo paese ci hanno messo in una situazione nella quale noi non siamo in guerra economica con la Cina, ma la Cina sta muovendo una guerra economica a noi. (…) Io voglio che la Cina la smetta di impadronirsi della nostra tecnologia. La Cina, attraverso il trasferimento coatto o il furto di tecnologia, insomma forzando un travaso di tecnologie, sta colpendo al cuore l’innovazione americana”. Poi una frecciata “ai geni dell’Amministrazione Bush che hanno lasciato entrare la Cina nell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) raccontandoci: ‘Ehi, diventeranno una liberal-democrazia. Svilupperanno capitalismo e libero mercato’. Ok? Sono gli stessi geni che ci hanno portato in Iraq, ecco i geni dell’Amministrazione Bush. Queste persone le ritengo di nessun valore. Non li voglio sentire”. Pechino, per Bannon, è anche il fulcro della soluzione nella crisi nordcoreana. Ma è davvero possibile esercitare pressione sul paese comunista? “Gli Stati Uniti dovrebbero utilizzare l’enorme potere di leva che hanno – attraverso sanzioni e mercati dei capitali – sulle banche e sulle istituzioni finanziarie cinesi. Un potere di leva che non si può esercitare alla leggera – ammette il pensatore conservatore – perché ciò avrebbe un impatto anche qui negli Stati Uniti. Non c’è dubbio”.

BANNON VS. I LIBERAL

L’intellighenzia liberal americana lo accusa di non apprezzare la diversità della società americana e i diritti civili? Bannon risponde: “Sono cresciuto in un quartiere in cui non esisteva segregazione. La parte a nord di Richmond, che è a maggioranza afro-americana, ok? Ho frequentato una scuola cattolica in cui non vigeva la segregazione. Ho servito nell’esercito americano. Non ho bisogno che oggi un mucchio di liberal da limousine, provenienti dall’Upper East side di New York o dagli Hamptons, mi venga a fare la lezione”. L’unica cosa che sta a cuore a Bannon è quello che definisce “nazionalismo economico”: “A proposito, questo vale per ogni nazionalità, razza, religione o preferenza sessuale. Finché sei un cittadino di questo paese, finché sei un cittadino americano, puoi essere parte di questo movimento populista e nazionalista dal punto di vista economico”.

BANNON VS. I NEONAZISTI

Il nazionalismo economico che Bannon esalta – a suo modo di vedere – affonda le proprie radici nella storia americana. “Prendi il XIX secolo. Prendi ciò che ha costruito quello che chiamiamo sistema americano, da Hamilton a Polk a Henry Clay, fino a Lincoln e i Roosevelt. Un sistema di protezione della nostra manifattura, un sistema finanziario che elargisce prestiti all’industria, e il controllo dei nostri confini. Il nazionalismo economico è ciò su cui si è costruito questo paese. Il sistema americano. Giusto? Torniamo a quel modello”. Che comunque non ha nulla a che vedere con il nazionalismo di marca europea, quello “Blut und Boden” per intenderci, “terra e sangue”. Lo dimostra il disprezzo che il pensatore trumpiano manifesta per i neonazisti. Eppure Trump, secondo molti osservatori, sarebbe rimasto equidistante tra neonazisti e antifascisti dopo gli scontri di Charlottesville. Replica Bannon: “Quello che il Presidente stava provando a dire è che le persone che sostenevano pacificamente il mantenimento di un monumento (la statua di un generale confederato, ndr) e quelle che pacificamente si opponevano, si collocavano entrambe nella normale applicazione del Primo Emendamento (sulla libertà d’espressione, ndr). Quando invece ha parlato di neonazisti, neo-confederati, del Ku Klux Klan… A proposito: queste persone sono terribili. Non c’è spazio per loro nella politica americana. Non c’è spazio per loro nella società americana”, ha concluso l’eclettico e sulfureo consigliere trumpiano.


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