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Gli intrecci fra politiche energetiche e cambiamenti climatici spiegati dal prof. Alberto Clò

g7 energia, alberto clò

Esiste davvero il global warming? È davvero causato dall’aumento dei gas serra in atmosfera (prodotti dalle risorse fossili)? La transizione energetica, il taglio nelle emissioni di CO2, la produzione di energie alternative sono una risposta efficace contro il surriscaldamento globale? Queste, e tante altre domande, sono alla base del libro “Energia e clima. L’altra faccia della medaglia”, scritto da Alberto Clò, già ministro dell’Industria e del Commercio nel Governo Dini e direttore della rivista Energia, da pochi giorni nelle libro per le edizioni Il Mulino. La questione energetica è strettamente legata alle nuove politiche sul cambiamento climatico che non possono, però, non tener conto della situazione politico-economica degli Stati coinvolti.

INCERTEZZA, ANSIA E OPINIONE PUBBLICA

L’incertezza, si legge nel capitolo “Energia e lotta ai cambiamenti climatici”, è connaturata alla scienza, ma allo stesso tempo anche lo scetticismo dell’opinione pubblica sull’avverarsi dei rischi connessi al cambiamento climatico. “Fondare l’adesione delle opinioni pubbliche alle politiche climatiche principalmente sull’ansietà del futuro e sulle imminenti catastrofi che ne possono derivare finisce per ridurre l’impatto emotivo inducendo sentimenti di fatalismo che allentano la disponibilità e l’attenzione alle azioni da intraprendere”, spiega Clò. “Il tema principale nel dibattito sui cambiamenti climatici – aggiunge – non è tanto se essi si stiano o meno verificando, quanto su come, in che misura, a quale velocità, con quali effetti avranno”.

DECARBONIZZAZIONE E TRANSIZIONE ENERGETICA

La risposta che è stata data al cambiamento climatico riguarda la riduzione della produzione di anidride carbonica, prodotta dai combustibili fossili. La piena decarbonizzazione è entrata nell’agenda politica nel G7 di Parigi del 7-8 giugno 2015, ma ha visto la sua origine nel Protocollo di Kyoto (redatto nel 1997 e entrato in vigore nel 2005) malgrado le posizioni contrapposte sull’effettiva validità scientifica del surriscaldamento globale (dimostrato, per alcuni, dall’IPCC, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, mentre per altri poco credibile perché non indipendente da influenze politiche). Al di là di tali dubbi, però, la risposta è stata appunto la decarbonizzazione e quindi la transizione energetica, ossia la riconversione dei “sistemi di produzione all’impiego delle risorse rinnovabili e abbattendo la curva dei consumi di energia”.

DUE STRATEGIE DI INTERVENTO

Sono due le linee di intervento che si sono sviluppate nella comunità scientifica, e poi fatte proprie dagli Stati: da una parte quella della “mitigazione”, dall’altra la strategia dell'”adattamento”. La prima, spiega Clò, è “tesa a intervenire sulle cause da cui originano i cambiamenti climatici, riducendo le emissioni di gas serra attraverso la sostituzione delle fonti fossili e la riduzione dei consumi”; la seconda, invece, è “volta a prevenire o contenere i danni che dovessero derivare da emergenze climatiche attraverso la costruzione di infrastrutture più resilienti”. “Se la mitigrazione appare più risolutiva – scrive Clò – recidendo il male alla radice, essa viene non di meno giudicata altamente costosa proiettata in un tempo troppo lontano sia nella sua implementazione che nei benefici attesi sulla temperatura”. Inoltre, spiega ancora Clò, c’è il rischio di asimmetria tra chi ne sostiene i costi e chi invece ne beneficerebbe senza oneri. “La strategia dell’adattamento appare, per contro, meno conclusiva ma più efficace nel rapporto tra azioni ed effetti, relativamente meno costosa, con benefici a vantaggio di chi ne ha direttamente sopportato i costi”. Secondo Clò, le due strategie si devono considerare complementari e non antitetiche, anche se con l’effetto di innalzare il costo della lotta ai cambiamenti climatici.

IL COSTO ECONOMICO (E NON SOLO)

Secondo l’economista, il Protocollo di Kyoto in cui 180 Stati si impegnavano a ridurre le emissioni di carbonio del 20% entro il 2020 ha portato, in realtà, alla delocalizzaione delle attività industriali nei paesi in via di sviluppo che non erano soggetti ai vincoli. “Una riallocazione delle emissioni globali – sentenzia Clò – più che una loro riduzione globale”. Le misure sancite dal Protocollo, infatti, e la mancata adesione di Cina, Stati Uniti e India, hanno portato a un aumento delle emissioni globali del 55% dal 1995 al 2015.

IL RUOLO DI BRUXELLES

Nell’intrecciarsi di interesi economici, crescita globale e taglio dei consumi energetici, l’Europa ha cercato di giocare un ruolo di “leadership morale” (avendo ormai perso quella economica) “indicando agli altri quello che avrebbero dovuto fare”. “Alla prova dei fatti – spiega Clò – i risultati sono stati del tutto simbolici”. Se infatti l’Europa ha applicato il Protocollo con largo anticipo (“obiettivo di riduzione delle emissioni del 20% fissato per il 2020” raggiunto al 19,4% nel 2015) “è altrettanto vero che sulla curva crescente delle emissioni globali l’importanza di questa riduzione è stata inferiore all’1%, mentre muterebbe di segno se si tenesse conto delle emissioni incrementali indotte nei paesi emergenti”. In sintesi, da una parte l’Europa riduceva la produzione di carbonio, a caro prezzo, e dall’altra parte la esportava delocalizzando le sue attività industriali.

PROBLEMA GLOBALE, INTERESSI LOCALI

In uno scenario in cui le diversità dei vari Paesi non sono – e non possono essere – appiattite, Clò spiega che la “possibilità di dare anche parziale risposta alla sfida dei cambiamenti climatici poggia su tre condizioni: a) capacità degli Stati di adottare sul piano interno misure che siano ambientalmente virtuose senza essere economicamente rovinose; b)necessità, sul piano internazionale, di adattare le regole che governano il commercio internazionale per evitare ostacoli alle politiche climatiche ma anche comportamenti opportunistici degli Stati; c) capacità di istituire una qualche autorità o ordinamento sovra-nazionale che disponga del potere, se non di imporre, almeno di coordinare le politiche nazionali sollecitando gli Stati all’adozione di specifici strumenti e istituti innovativi”.

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