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Vi spiego le vere novità del discorso di Theresa May a Firenze sulla Brexit

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Nel suo discorso di venerdì a Firenze Theresa May (in foto) ha in sostanza confermato la sua visione di Brexit esposta nel gennaio scorso alla Lancaster House. Per chi fosse appassionato al dibattito tra etichette, tra una “Hard Brexit” e una “Soft Brexit”, quella che ha in mente la premier britannica si può ancora definire come una “Clean Brexit”. Un’uscita chiara, “pulita”, ma ordinata. Il che significa che il Regno Unito non farà più parte del Mercato Unico e dell’Unione doganale, né chiederà di rientrarvi dalla finestra, secondo modelli ed esperienze già esistenti (né EEA né CETA). Ma Londra non intende nemmeno tagliare del tutto i ponti con i suoi ex partner europei. Propone non solo un accordo di libero scambio, ma una vera e propria partnership, una “relazione speciale”: non solo economica dunque, anche strategica (sicurezza e difesa, sfide globali).

È sconfortante invece constatare l’atteggiamento, ancora oggi, ad oltre un anno dal referendum britannico del 2016, così puerile, superficiale, miope di commentatori, corrispondenti e presunti “esperti” che ironizzano sulle difficoltà britanniche quasi compiacendosene (e illudendosi che la Brexit non possa avere pesanti conseguenze negative anche per l’Ue).

Uno dei rimproveri più spesso rivolti alla premier britannica è di non fornire i dettagli delle sue proposte. Mancano i dettagli? Ovvio. Da una parte, infatti, proprio i dettagli sia della chiusura del vecchio rapporto che della futura partnership Ue-Uk dovrebbero essere oggetto di negoziato, quindi è ingenuo aspettarsi che siano rivelati in un discorso pubblico che non può che riguardare principi e linee generali. Dall’altra, ad oggi nemmeno uno dei principali leader europei si è espresso su quale debba essere a suo avviso la natura delle future relazioni Uk-Ue. La posizione negoziale dell’Ue fino ad oggi è stata all’insegna dell’attendismo e del battere cassa.

Si risponderà: sono loro che hanno deciso di uscire, è un problema loro, dicano loro cosa vogliono fare. Benissimo, ma è esattamente ciò che Theresa May ci sta dicendo da mesi, senza ricevere risposte, se non i “no” e i “di più” di piccoli burocrati di Bruxelles capaci solo di chiedere più soldi.

Ma venerdì Theresa May ha messo sul piatto due importanti concessioni, annunciando di voler soddisfare di fatto le richieste Ue sullo status dei cittadini europei attualmente residenti nel Regno Unito e di voler onorare gli impegni in termini di contributo netto di Londra al bilancio europeo 2014-2020. Due questioni che per loro stessa ammissione sono in cima alle preoccupazioni dei capi negoziatori Ue. Vedremo quindi se queste aperture (probabilmente il massimo che i Brexiteers possono tollerare) riusciranno a sbloccare il negoziato o se, in realtà, a Bruxelles non si vuole affatto un vero negoziato, bensì lasciar trascorrere inutilmente il tempo fino alla scadenza dei due anni.

La vera novità del discorso della May è la proposta di un periodo di transizione (la premier britannica in realtà l’ha definito di “implementazione” del nuovo assetto delle relazioni Ue-Uk) di ulteriori due anni (anche meno se fosse possibile) rispetto ai due di negoziati già in corso. Il che ha scatenato una nuova ondata di sarcasmo da parte di commentatori che evidentemente mostrano di ignorare la complessità della materia. Ecco, ci hanno ripensato, la Brexit era uno scherzo, non se ne fa più niente, non hanno la minima idea di come uscirne… Certo, la proposta di fatto rinvia la vera e propria Brexit e farà infuriare gli hard Brexiteers. Ma non cela un ripensamento, né un’incertezza sul tipo di Brexit che si prefigge il governo di Sua Maestà, bensì un escamotage da parte di Londra per scavalcare la tagliola del 29 marzo 2019 come termine ultimo dei negoziati.

L’articolo 50 del Trattato di Lisbona infatti pone – comprensibilmente – il paese uscente in una posizione di svantaggio negoziale, stabilendo un periodo di due anni trascorsi i quali è formalmente fuori senza alcun accordo. Periodo che può essere prorogato solo all’unanimità dei membri restanti dell’Ue. Questo permette a una delle parti, l’Ue, di mantenere nel negoziato una posizione attendista, solo reattiva e non anche propositiva. A causa di questo squilibrio tra le parti, i negoziati rischiano di ridursi a una mera chiusura dei conti rimasti in sospeso senza mai entrare nel vivo dei futuri rapporti Ue-Uk. Ed è infatti precisamente questa l’attuale posizione dei negoziatori di Bruxelles. Questa forte arma negoziale, la mancata estensione del termine, espone il Regno Unito a dover accettare in extremis un cattivo accordo. E’ per questa ragione, nel tentativo di colmare questo svantaggio, che la May ha prima dichiarato “no deal is better than a bad deal” (concetto ribadito anche a Firenze, tra l’altro, rispondendo alle domande dei giornalisti), e oggi propone un periodo di transizione.

Dunque, chi vede nella proposta di un periodo di transizione una volontà britannica di rinviare sine die la Brexit, quindi una sorta di ripensamento, di pentimento, sta in realtà rivestendo del suo wishful thinking un mero espediente tattico di Londra, la cui prima preoccupazione è “neutralizzare” la scadenza del 29 marzo 2019 per favorire l’avvio di un vero negoziato sui rapporti futuri. Questo periodo di transizione, in un certo senso, è già cominciato, perché il “Great Repeal Bill”, da poco approvato dalla Camera dei Comuni, non è che l’assunzione da parte del Regno Unito di tutta la normativa di origine europea nel suo ordinamento interno.

Non va sottovalutato, tra l’altro, che secondo una scuola di pensiero non marginale in Gran Bretagna, di cui fanno parte autorevoli think tank ed economisti, a ben vedere l’articolo 50 sarebbe un’arma piuttosto spuntata, perché in realtà la prospettiva di un “no deal” non sarebbe affatto così drammatica per l’economia britannica. Il Regno Unito si ritroverebbe a commerciare con l’Ue sulla base delle regole del WTO, come già accade con i paesi extra-Ue, e nel medio-lungo periodo i vantaggi compenserebbero ampiamente gli svantaggi. E’ poi del tutto inesatto che Londra non possa negoziare accordi commerciali fino al 29 marzo 2019, data della sua uscita formale dall’Ue. Può negoziarli e persino siglarli, l’unico vincolo è che non entrino in vigore prima di quella data.

Se il negoziato è in stallo, dunque, non è solo per l’oggettiva complessità delle materie da affrontare, per le comprensibili incertezze del governo britannico, dovute alla difficoltà della premier nel tenere insieme le diverse anime del suo gabinetto ma anche i diversi interessi dei popoli che fanno parte del Regno Unito. I negoziati sono di fatto congelati anche da parte europea, con i negoziatori di Bruxelles che si sono limitati ad opporre dei “no”, senza alcun contributo costruttivo.

Personalmente, resto convinto che all’indomani delle elezioni tedesche, e quando sarà formato il nuovo governo (che potrebbe rivelarsi impresa più ardua del previsto, nonostante la Merkel avviata verso il suo quarto mandato), allora i governi nazionali – Berlino e Parigi in testa – prenderanno in mano le redini del negoziato, la rigidità dei burocrati di Bruxelles verrà superata e a prevalere sarà il buon senso, dettato dall’interesse anche dei singoli membri dell’Ue (e di noi italiani in primis) a mantenere una stretta relazione con il Regno Unito.

Forse mi illudo. Forse anche la cancelliera Merkel e il presidente francese Macron proseguiranno nel muro contro muro con Londra. Vedremo. In ogni caso, sarebbe questo un grave errore, perché è evidente l’interesse europeo in una partnership forte e profonda con il Regno Unito, sia dal punto di vista economico che strategico. Sarebbe incredibilmente miope continuare a pensare, come si è fatto in questo anno, che la Brexit sia una sciagura (ammesso che lo sia davvero) solo per il Regno Unito e che sia nell’interesse dell’Ue far pagare ai britannici a caro prezzo la loro sfida al progetto europeo.

Brexit significa fine della membership, dell’appartenenza di Londra all’Unione europea come istituzione sovranazionale, ma non che non si possa stabilire un rapporto tra pari Ue-Uk, uno-a-uno, tra soggetti indipendenti e sovrani. Una nuova partnership tutta da inventare naturalmente, regolata da nuovi istituti (per questo la May ha parlato di creatività e immaginazione), ma che è nell’interesse sia del Regno Unito che dell’Ue.

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