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Generazione Q: la Quiete prima della tempesta!

Quando abbiamo letto ieri l’editoriale di Thomas Friedman sul NYT, ci siamo immediatamente identificati nella Generazione “Q” del quale parla uno dei più noti columnist americani. Con stupore, stamane apprendiamo dalla Farkas del Corsera che quel “Q” che sta per “Quieta” è in realtà un termine dispregiativo. Diamine! O abbiamo perso il polso della lingua americana o ci siamo rifiutati di leggere un palese insulto nei nostri confronti. Siamo andati a riprendere la column di Friedman e abbiamo tirato un sospiro di sollievo. La traduzione della giornalista del Corsera non corrisponde alle parole e al senso che gli ha voluto dare Friedman. Siamo noi la Generazione Quieta, quelli che non urlano più in piazza, ma preferiscono dialogare virtualmente ondine. Quelli, però, che non si sono lasciati terrorizzare dall’11 settembre e che continuano a viaggiare, a “costruire case in Salvador” e a fare i volontari nelle cliniche per i malati di Aids. La Generazione Q non è affatto disimpegnata, semmai è in costante understatement. Friedman non solo l’apprezza largamente, ma si sente anche in dovere di precisare che il termine “quiet” non è un dispregiativo, bensì “il miglior termine che si può trovare” per indicare questa larga porzione di “quieti americani”, operose formiche poco avvezze al glamour. Da navigato fruitore dell’idealismo post-Woodstock e di una politica basata sui volti e sulle parole di Martin Luther King e John F. Kennerdy, Friedman consiglia alla Generazione Q di fare un salto, di uscire dal silenzio e dal virtuale e di tornare a fare politica, a chiedere ai potenti di rispondere a domande precise, associando indignazione e impegno. E’ un consiglio che dà perché crede che questo “salto” sia realmente possibile; un salto ottimistico e di profondo coraggio. Parafrasando il poeta, forse di questi tempi dovremmo cominciare a parlare di “quiete prima della tempesta”.

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