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L’Europa parli americano ma gli Usa restano il Re

1. La de-evoluzione del potere globale statunitense è un problema grave per l’America, ma gravissimo per l’Unione europea.  
È utile fare riferimento al rapporto “Tendenze globali 2025” preparato dal National Intelligence Council per istruire l’Amministrazione Obama durante il periodo di transizione dei poteri nell’autunno/inverno 2008. Nel 2025 l’America resterà superpotenza, ma alla pari con la Cina, l’India solo un po’ dietro, Russia forte, Ue marginale. Il sistema internazionale diventerà multipolare. Il rapporto non crede a soluzioni di composizione multilaterale della multipolarità perché prevede l’aumento del disordine globale con impatto grave nel sistema interno statunitense.
Nell’estate del 2006 scrissi, nel libro La Grande Alleanza (Angeli, 2007), uno scenario simile a quello prodotto dal Nic che individuava i seguenti problemi:
–         l’America, pur restando superpotenza, è ormai troppo piccola per reggere da sola l’economia e la sicurezza mondiali come ha fatto dal 1945 in poi;
–         ci sarà un vuoto di governo nel sistema globale che ne comprometterà l’equilibrio e aumenterà il rischio di sua dissoluzione – rinazionalizzazioni economiche, protezionismi – e conseguenti crisi economiche e conflitti;
–          il “capitalismo autoritario”, per la spinta del crescente potere economico e geopolitico sia della Cina sia della Russia, sta diventando più forte e diffuso del “capitalismo democratico” e ciò aumenta i pericoli generati dal vuoto di governo globale;
–         l’Unione europea, fragile internamente e per questo motivo impotente esternamente, non avrà la forza per difendere i propri interessi nel cambiamento globale in atto, così subendo danni.
 
Per evitare tali rischi proposi la strategia di formare un’area economica e monetaria euroamericana, sostenuta da un rafforzamento della Nato, che divenga il centro di riferimento del mercato globale con la capacità di governarlo secondo i principi del capitalismo democratico e del continuo bilanciamento. E poi, a partire da questo nucleo forte, creare gradualmente un mercato internazionale delle democrazie, includendo man mano sempre più nazioni. In sostanza, proposi una strategia G2 dove una Ue più attiva avrebbe integrato il potere cedente dell’America così ricostruendo un centro forte di governance globale ispirato al “criterio occidentale”.
Ora tale strategia di riordinamento appare, in seguito ai fenomeni della recessione globale visibili nel febbraio 2009, perfino più necessaria di quando fu abbozzata. Ma tra le tre tendenze possibili è quella di fattibilità meno probabile. Infatti le più probabili sono la tendenza alla frammentazione – cosmetizzata, ma non invertita, dai linguaggi multilaterali – o la ricostruzione di un instabile sistema G2 sino-americano. Qui vorrei tentare di dare più probabilità, invece, al G2 euroamericano. 
 
 2. Cosa farà Obama? Per capirlo, oltre a cercare di interpretare le prime mosse in politica estera della sua Amministrazione, è utile ricordare due fatti storici in relazione alla politica estera  statunitense. L’Amministrazione Clinton (1992-2000) tentò di riorganizzare il pianeta esercitando in forma benigna l’egemonia monopolare statunitense seguita al crollo del mondo bipolare, cioè alla fine della Guerra Fredda ed alla dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991). Ma i suoi tentativi fallirono, dal controllo della proliferazione fino alla rinascita dell’Africa, perché l’America, appunto, non era grande e forte abbastanza per riuscirci. Il globalismo di Clinton trovava un limite di forza oggettivo, indipendentemente dal tipo di politica di dettaglio. Il mondo era denso di poteri emergenti, l’economia globale più grande, il tutto un letto più grande della coperta statunitense. Clinton non se ne era accorto oppure tentò di fare con forza cedente ciò che richiedeva un potere maggiore. Il pensiero repubblicano se ne accorse e tentò una soluzione al problema di come mantenere il primato dell’America sul mondo non avendo più la forza militare ed economica sufficiente. La soluzione fu individuata nella “Nuova dottrina dell’Interesse nazionale”, pubblicata da Condolezza Rice sulla rivista Foreign Affairs nella primavera del 2000, in apertura della campagna elettorale. In sostanza, l’America avrebbe dovuto limitare il proprio impegno diretto negli affari globali solo alle questioni di interesse vitale, lasciando agli alleati o ai poteri regionali la responsabilità di gestire i problemi di area. L’intento era chiaro, pur tra le righe: l’America non poteva più permettersi di governare il mondo, cioè di sostenerne i costi, e si ritirava in una posizione, tuttavia, dove poteva controllarlo. I fatti del settembre 2001 modificarono questa impostazione che l’Amministrazione Bush aveva tenuto nei primi mesi del suo mandato. L’America  riproiettò nel pianeta il suo potere, con metodo unilaterale, sotto la bandiera della guerra globale al terrore. Ma dal 2004 in poi riprese una posizione di disingaggio travestito da accettazione del multilateralismo.     
Obama, in base ai primi indizi, opterà per una strategia simile a quella dell’Interesse nazionale, solo meglio travestita da aperture multilaterali. L’America manterrà la capacità di intervenire militarmente in tutto il pianeta. Farà alleanze variabili di contingenza. Per quelle più durature userà il solito “modello stellare”: l’America al centro, relazioni bilaterali specifiche con ogni singolo alleato, capacità asimmetrica di condizionarlo, ma senza farsi condizionare. Tale strategia, pur travestita da neomultilateralismo obamiano, seguirà un metodo sostanzialmente unilaterale e continuista, ma discontinuo nelle conseguenze politiche. L’America controllerà il mondo in base al suo interesse nazionale, ma non tenterà più di governarlo, una forma di strategia neoprotezionista, sempre latente nel pensiero politico statunitense influenzato dalla corrente isolazionista.
Se verrà confermata, sarà solo una mezza soluzione per l’America ed un grave problema per la Ue. Con una complicazione.
Per essere rieletto nel 2012 Obama deve risolvere la crisi economica. I megastimoli in deficit implicano che la Cina compri il debito. Pechino è reticente, ma non può sostituire in poco tempo il modello di sviluppo “export led” che la costringe a finanziare la crescita americana. Obama, per altro, non può ricostruire il sistema binario sinoamericano con gli squilibri del recente passato, deficit commerciale e, soprattutto, pressione concorrenziale eccessiva sulla classe media (che infatti gli ha chiesto protezionismo). Pertanto Cina ed America hanno l’interesse a ricostruire il sistema binario, ma a nuove condizioni di reciproca garanzia. La prima dovrà ridurre l’aggressività competitiva, la seconda darle privilegi. Se si  consolidasse l’asse sinoamericano, la Cina guadagnerebbe in prospettiva la posizione di potenza mondiale primaria. Obama, sotto pressione, potrebbe cedere futuro in cambio di presente. Se così avvenisse, per l’Europa sarebbe la fine. L’Amerasia sarebbe una sfida svalutativa per l’eurozona, o comunque una fonte di instabilità dei cambi, che la getterebbe in crisi competitiva endemica. La Ue, piccola e isolata, non potrebbe difendere il suo modello sociale sui tavoli dove si decidono le regole globali. Lo svantaggio geopolitico e geoeconomico renderebbe più costosa e difficile la tenuta dell’euro. Ma anche per l’America la strategia ipotizzata sarebbe, alla fine, dannosa. Diventerebbe ricattabile dal regime autoritario cinese. Comunque non riconquisterebbe forza condizionante globale per evitare disordini (energia, guerre, economia) che poi ricadranno sul suo territorio.
 
3. La soluzione alternativa con vantaggio per America ed Europa è quella di formare un centro del mercato mondiale euroamericano invece che sinoamericano: (a) far convergere euro e dollaro per salvare ambedue e dare un solido pilastro al sistema finanziario globale; (b) trasformare l’alleanza da asimmetrica in simmetrica, gradualmente, fino alla fusione dei mercati; (c) poi includere altre nazioni con requisiti di democrazia, welfare, ecc.; (d) l’euro america, più grande economicamente della Cina potrà condizionarla per ridurne autoritarismo ed aggressività esterna . Quando presentai questo concetto negli Stati Uniti, contenuto appunto nel libro La grande alleanza (www.lagrandealleanza.it), in seminari in cui erano presenti élites politiche sia democratiche sia repubblicane, le risposte furono scettiche o negative. Per esempio: impossibile che l’America accetti alleanze condizionanti che riducano la sua sovranità e libertà di manovra; la Ue non può essere un partner perché non esiste come entità integrata con una voce unica; il G2 sinoamericano è una simbiosi necessaria, ecc.
Nel gennaio 2007 Merkel, allora presidente Ue, propose l’avvio di un mercato euroamericano. È interessante notare che solo l’inglese Financial Times riportò tale notizia in prima pagina, assegnandole la giusta rilevanza, anche se probabilmente per la paura che la mossa creasse un asse Berlino-Washington disintermediando Londra. Comunque  Bush respinse l’offerta, ma il progetto è ancora formalmente in studio. C’è un comitato misto Ue-Usa, pur riunitosi senza fretta eccessiva nel 2007 e 2008,  che ha la missione di studiare la fattibilità di unificare la convergenza delle regole finanziarie e legali, precursori di integrazioni più forti dei rispettivi mercati, e – per motivi di cosmesi politica – l’integrazione degli standard ecologici. Con massima priorità la Ue dovrebbe proporre ad Obama di riprenderlo dal cassetto. Quanto è probabile che possa farlo? Quanto è probabile che la Ue lo proponga?  
Purtroppo al momento è molto bassa. La mossa di Merkel era stata ispirata anche dalla necessità di rispondere all’aggressività ricattatoria della Russia. Putin, nel novembre del 2006, aveva chiesto, pare segretamente, alla Germania di fermare l’espansione ad est della Ue e di lasciare fuori l’Ucraina o se no questo avrebbe comportato problemi nel rifornimento di gas dalla Russia. La Ue accelerò l’integrazione di Romania e Bulgaria proprio per nascondere l’accettazione del ricatto russo, cioè la fissazione dei confini orientali in modo che lasciassero una zona grigia (Bielorussia, Ucraina, Moldova) tra Ue stessa e Russia. Per inciso Putin aveva le sue ragioni: l’espansione senza limite della Ue ad est aveva una forza destabilizzante e frammentante nei confronti della Federazione russa. Inoltre, quando tra il 2002 ed il 2004 aveva chiesto a Chirac e Schroeder una formula di integrazione pur solo iniziale tra Russia ed Ue, aveva trovato porte chiuse, anche per la posizione contraria di Regno Unito ed America. Per inciso, quando aveva offerto nel 2001 a Bush collaborazione strategica in cambio del riconoscimento di status di seconda potenza mondiale, forte del fatto di averlo avvertito per telefono che era in preparazione un attentato da parte di Al Qaida il giorno prima dell’attacco a New York, trovò un netto rifiuto. Pertanto è comprensibile l’atteggiamento minaccioso della Russia quando trovò più forza grazie all’aumento dei prezzi dell’energia. Ed è anche comprensibile che la Germania, spaventata, abbia reagito proponendo all’America un’alleanza più stretta, a difesa. Ma ai primi del 2009 la Russia appare meno minacciosa in quanto la recessione globale ed il conseguente calo dei prezzi energetici le toglie forza. Inoltre l’eccesso di pressione sulla Ue ha comportato la ricerca di una minore dipendenza dal gas russo. Pertanto Mosca è più disposta a negoziare che a minacciare e ciò riduce la necessità per la Ue di farsi difendere dall’America.
La crisi bancaria con epicentro in America, poi, non ha reso popolare l’integrazione tra i due mercati. Merkel stessa ha pronunciato le parole “mai più la finanza che parla inglese”, unendosi al coro composto da Sarkozy, Tremonti ed altri. Sul piano più tecnico, poi, la Riserva federale statunitense e la Banca centrale europea hanno dottrine di politica monetaria diverse, se non perfino contrapposte. Certamente il 2009 e forse il 2010 non appaiono buoni momenti per riprendere il progetto di integrazione economica euro americana. Inoltre le relazioni euro americane sono piuttosto buone sul piano geopolitico, in particolare a livello della Nato dove la Francia è rientrata nella struttura militare vera e propria, e ciò riduce la pressione a migliorarle ulteriormente dando loro una forma più strutturata.  
Sull’altro lato dell’Atlantico, l’Amministrazione Obama, appunto, ha la priorità di ricalibrare la relazione con la Cina per i motivi detti prima. Ha certamente anche la priorità di rinsaldare l’alleanza con gli europei. Ma solo per farli contribuire allo sforzo bellico in Afghanistan e in altri teatri. Probabilmente, appunto, perseguirà in modo continuista il concetto di alleanze a geometria variabile dove l’America costruisce relazioni speciali con quello o quell’altro Paese o blocco regionale in relazione a problemi specifici, senza mai farsi condizionare eccessivamente. Tale politica delle mani libere avrà toni politici più morbidi in relazione a quelli della prima amministrazione Bush, per esempio nei confronti della Russia, dell’Iran, ecc., e sarà un cambiamento importante, ma in sostanza continuerà una linea unilateralista non disposta ad alleanze strutturali. 
Ma allora perché insistere su un progetto euroamericano se appare così infattibile?
 
4. Perché senza integrazione euro americana, come nucleo di un più ampio sistema delle democrazie che si estenda nel pianeta, la probabilità che il mondo vada incontro a gravi crisi economiche e conflitti, tornando ad una configurazione simile a quella di fine ‘800, modello a “palle di biliardo”, è elevatissima. Inoltre, mentre l’America ha qualche speranza di sopravvivere al disordine globale futuro, pur lo scenario del Nic detto in apertura mostrando che potrebbe non essere così, certamente la Ue e l’unione monetaria ne ha di meno.
L’America a mani libere, connessa nuovamente con la Cina in un sistema economico binario dove la prima consuma a debito e la seconda glielo finanza per esportare, potrebbe ad un certo punto svalutare il dollaro oltre misura e mettere l’eurozona in trappola decompetitiva. L’America non vincolata all’Europa potrebbe trasformarsi da alleato storico in nemico geoeconomico. Per altro l’Europa si è già fatta mettere in una  trappola simile perseguendo una politica monetaria che privilegia la stabilità, ovvero un valore di cambio elevato dell’euro a scapito della crescita economica. L’essere ai margini di un centro sinoamericano dell’economia mondiale con una politica di idealismo monetario comporta un rischio elevatissimo di catastrofe. In particolare, la crisi competitiva dell’eurozona ne ridurrebbe la crescita alzando i debiti oltre i limiti di sostenibilità provocando così la dissoluzione dell’euro e la frammentazione intraeuropea. La Ue dovrebbe stare attentissima a questo rischio, per altro già in evoluzione a seguito della crisi economica in corso.
In un mercato internazionale senza un centro di comando è improbabile che si sviluppino regole di bilanciamento tra economie emergenti e mature. In tale scenario soffrirebbero di più le nazioni a welfare molto strutturato, costrette a ridurre le garanzie per competere o ad accettare la crisi competitiva, ambedue alternative di impoverimento. Se la Ue, caratterizzata da Stati membri con welfare pesantissimo, non sarà sul tavolo di comando corre questo rischio.
Forse perfino più importante è il problema monetario. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 ha insegnato, al momento, che l’economia globale può produrre enormi crisi  nel ciclo del capitale ed in poco tempo. Alcuni ritengono che tale problema potrà essere risolto facendo regole migliori che evitino eccessi e conseguenti disastri. Sarà utile, ma non risolutivo. La natura stessa del “capitale abbondante” implica continue crisi. O si rinuncia all’abbondanza del capitale, cioè all’economia finanziarizzata, oppure si copre il rischio creando un prestatore di ultima istanza con capacità commensurate alla grandezza del sistema finanziario. La scelta della prima opzione sarebbe come togliere sangue al corpo e sembra bizzarro che qualcuno la proponga. Pertanto resta quella realistica di creare un sistema di ultima istanza tanto grande quanto lo è il capitale globale. Ma ciò impone la creazione di un’area politica/monetaria, appunto, più grande e a partire da monete con certa forza. Tale requisito è rispettato solo dal dollaro e dall’euro, lo yen indebolito dal modello economico sottostante, il renvimbi non ancora convertibile e difficilmente affidabile perché basato su un modello cinese ancora, e per molto, in sviluppo e con gravi problemi di disordine. In sintesi, solo l’integrazione, preceduta da una lunga fase di convergenza, tra euro e dollaro potrà fornire la governance monetaria robusta abbastanza per gestire le crisi future dell’economia finanziarizzata globale.
Il G2 sinoamericano, come già accennato, implicherebbe poi il primato mondiale della Cina e del sue regime di capitalismo autoritario. Tale ipotesi è inaccettabile sia per l’instabilità intrinseca dei regimi autoritari sia per motivi politico-morali. La democrazia diventerebbe minoritaria nel pianeta.
Per tali motivi non possiamo rinunciare al progetto euroamericano pur ora a fattibilità quasi impossibile.
 
5. Come renderlo possibile? L’America è vincolata dalla sua specialità, cioè dal senso condiviso di essere una nazione unica che deve restare totalmente libera da condizionamenti delle altre. Obama ha la priorità di essere rieletto ed è esposto alla tentazione di vendere futuro per comprare presente lungo la direttrice cinese. La Ue pare inconsapevole dei rischi qui detti. Inoltre resta frammentata. Cominciamo da qui.
Senza aspettare l’istituzionalizzazione di una Ue meglio in grado di decidere con voce unitaria bisognerebbe che le nazioni euro più importanti, Francia, Germania, Italia, Spagna ed il Regno Unito convergessero su un accordo selettivo per proporre l’avvio di un’alleanza strutturale con l’America sul piano economico. Tale direttorio darebbe un minimo di voce unica.
La proposta tocca alla Ue perché sia più a rischio sia perché nessun presidente americano se la sentirebbe di proporre un’alleanza condizionante al suo elettorato.  
Per qualche anno non sarà possibile, viste le tensioni protezioniste innescate dalla crisi, tentare accordi espliciti di libero scambio più ampio che troverebbero opposizione popolare. Ma si potranno gettare le basi tecniche che implicano molto studio data la diversità strutturale dei modelli economici europeo ed americano, il primo basato sull’erogazione di garanzie economiche dirette, il secondo indirette. E si potrà favorire l’acquisizione/fusione reciproca di aziende e banche, cosa già possibile a regime attuale, in modo da formare una solida piattaforma di entità economiche euro americane. Su questo livello bisognerebbe attuare una strategia lenta ed evolutiva.
Un passo più forte e marcato dovrebbe, invece, essere fatto  a livello di accordi monetari tra euro e dollaro. Un precursore per riuscirci riguarda la modifica dello statuto della Bce. Ora questo prescrive la sola missione di difesa della moneta contro l’inflazione, rendendo irresponsabile la politica monetaria in relazione alla crescita. La Riserva federale statunitense, invece, ha la doppia  missione: difesa dall’inflazione e stimolo alla crescita. Per rendere compatibili le due gestioni monetarie è assolutamente necessario rendere compatibile quella europea all’americana. Solo il cambio di statuto comporterebbe una convergenza naturale tra le due.
Il tema è difficile in Europa perché è prevedibile l’opposizione totale della Germania, nazione in cui la dottrina monetaria è stata forgiata dall’esperienza di inflazione distruttiva, poi causa sistemica del trionfo elettorale del partito nazista, negli Anni ‘30. Inoltre la missione unica di stabilità è un puntello per la moneta in assenza di un governo paneuropeo dell’economia. Infatti per sbloccare la paranoia monetaria dello statuto Bce bisognerebbe, prima, formare tale governo integrato, almeno per alcune funzioni. Con tale base di governance si riduce la necessità di una politica monetaria restrittiva strutturalmente e verrebbe a mancare il motivo razionale per opporsi al cambio di statuto. Il resto è politica negoziale e non la si può trattare qui. Ma qui si può indicare il percorso, il motivo e l’urgenza. È massimamente urgente.
Ma forse lo è perfino di più intervenire nella realtà dei fattori profondi che determinano la direzione verso un G2 euroamericano o sinoamericano. Semplificando, l’America andrà verso chi le comprerà il debito utile a rilanciarne la crescita. La questione è molto tecnica, ma qui si può dire che se la Ue vuole avviare la convergenza euroamericana deve mettersi in condizione di creditore netto nei confronti dell’America, cioè accettare di comprare una fetta sostanziosa del suo debito presente e futuro. Magari impacchettandolo con quello europeo interno, cosa che di fatto creerebbe l’eurodollaro. Ma tali cenni porterebbero verso un linguaggio di non immediata comprensione. Quindi mi fermo qui sperando di aver reso comprensibile, e sottoponibile sia a critica sia a condivisione, il progetto di convergenza euroamericana per la stabilizzazione globale e la sua necessità.
L’interesse europeo come qui definito coincide, ovviamente, con l’interesse nazionale italiano oggettivo.
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