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Usa for export

Vi sono una serie di dibattiti ricorrenti nella politica estera americana come ad esempio il divario tra la tendenza all’isolamento o all’internazionalizzazione. Ma nessun dibattito è più persistente di quello che intercorre tra coloro che sostengono che lo scopo principale della politica estera americana sia di influenzare il comportamento esterno di altri Stati, e coloro che ritengono invece che il suo obiettivo sia quello di ridisegnare la propria natura interna.
Il dibattito di lunga data tra “realisti” ed “idealisti” è decisamente molto intenso. Durante la Guerra fredda molti sostenevano che gli Stati Uniti avrebbero dovuto provare a “sconfiggere” l’Unione Sovietica, ad eliminare il sistema comunista e a sostituirlo con una forma di capitalismo democratico.
Altri invece consideravano una simile politica troppo pericolosa in un’epoca in cui era facile ripiegare sulle armi nucleari. In quel contesto gli Stati Uniti hanno finito per optare per una politica di contenimento con l’obiettivo di limitare l’influenza e l’espansione del potere sovietico.
Come è risultato in seguito, dopo 40 anni di politica di contenimento, l’Unione Sovietica si è dissolta con il suo impero, ma la sua fine è stata in realtà solo una conseguenza della politica statunitense e non il suo scopo principale.
George W. Bush è stato il più recente “idealista” deciso a fare della promozione della democrazia la priorità principale della politica estera statunitense. Bush ha abbracciato la cosiddetta teoria della “pace democratica” sostenendo non solo che le democrazie debbano rispettare e difendere gli interessi dei propri cittadini, ma che debbano agire a sostegno dei Paesi vicini e non.
Suo padre, George H.W. Bush, era invece un forte sostenitore dell’approccio alternativo, ovvero “realista”, della politica estera americana. Gran parte di questo dibattito può essere analizzato considerando la presenza dell’America in Iraq. George W. Bush ha lanciato la guerra in Iraq nel 2003 con lo scopo di cambiare il regime in atto. Si aspettava che un cambiamento di regime a Baghdad avrebbe portato la democrazia, instaurando un processo di sviluppo che avrebbe trasformato la regione creando un modello al quale si sarebbero ispirati anche altri Paesi arabi ed i rispettivi governi.
Per contro, all’interno del contesto iracheno precedente alla guerra, il primo presidente Bush, dopo aver creato una coalizione internazionale senza precedenti riuscendo a liberare il Kuwait, non ha continuato in seguito a fare pressioni su Baghdad per deporre Saddam Hussein ed il suo governo nonostante i diversi appelli in questo senso. E non è neppure intervenuto a sostegno della rivolta sciita e curda scoppiata dopo la fine della guerra nel 1991. A suo avviso, un eventuale intervento militare avrebbe messo i soldati americani nel mezzo di una complessa lotta interna, implicando l’utilizzo di un numero consistente di risorse per risolvere la questione, sempre se fosse mai stato possibile risolverla.
Il presidente Barack Obama sembra concordare con quest’approccio realistico. La nuova politica statunitense nei confronti dell’Afganistan non ha come obiettivo la trasformazione del Paese in una democrazia. Al contrario, come già indicato dal ministro della Difesa Robert Gates prima del congresso di gennaio, “se ci si pone come obiettivo la creazione di una Valhalla centro-asiatica non si può vincere”. Obama, da parte sua, ha dichiarato a marzo di avere un obiettivo chiaro e focalizzato: distruggere, smantellare e sconfiggere Al-Qaeda in Pakistan ed in Afganistan ed impedire il loro rientro in entrambi i Paesi in futuro.
Questo cambiamento è evidente anche nella politica adottata nei confronti della Cina. Durante il suo viaggio in Asia a febbraio il ministro degli Esteri Hillary Clinton ha sottolineato che i diritti umani avranno un posto secondario nelle relazioni con la Cina. Allo stesso modo, se da un lato la dichiarazione rilasciata da Obama e dal presidente russo Minitry Medvedev dopo l’incontro a Londra del 1° aprile indicava che le relazioni tra Usa e Russia saranno all’insegna del rispetto della legge, dei diritti umani e delle libertà fondamentali e nella tolleranza delle visioni diverse, dall’altra parte ha posto grande enfasi sulla riduzione delle armi nucleari in relazione al programma nucleare iraniano e sulla stabilizzazione dell’Afganistan. Inoltre, nella stessa dichiarazione, è stato ribadito che il sostegno dell’America all’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale del commercio sarà incondizionata.
Questo cambiamento nella politica estera statunitense è non solo auspicabile ma necessario. Le democrazie mature tendono ad agire in modo più responsabile, mentre le democrazie immature possono soccombere più facilmente al populismo ed al nazionalismo. Il processo di creazione delle democrazie mature è un procedimento lungo e difficile. Se poi da un lato gli Stati Uniti incoraggiano il rispetto delle regole e la crescita della società civile, dovrebbero comunque dall’altro collaborare sia con i governi democratici sia con quelli che non lo sono. Problematiche pressanti come la crisi economica, la proliferazione nucleare ed il cambiamento climatico purtroppo non possono aspettare. La buona notizia è che la storia dimostra che è possibile sia fare pace che portare avanti rapporti collaborativi anche con i Paesi non democratici. Israele, ad esempio, ha mantenuto relazioni pacifiche con Paesi non democratici come l’Egitto e la Giordania per più di trent’anni. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno collaborato limitatamente, come ad esempio nel controllo delle armi nucleari, nonostante le differenze fondamentali che li separano. Oggigiorno gli Stati Uniti e l’autoritaria Cina hanno legami commerciali che comportano benefici per entrambi ed hanno dimostrato, in diversi contesti, di essere in grado di collaborare su questioni strategiche come ad esempio nel profilare il comportamento della Corea del Nord.
Ciò non significa che la promozione della democrazia non sarà un obiettivo della politica estera americana. Lo sarà e dovrà esserlo. Ma la promozione della democrazia è un obiettivo molto incerto ed il mondo un posto troppo pericoloso per occupare un posto di rilievo nella politica statunitense. Pertanto la politica estera di Barack Obama rispecchierà in parte quella di George Bush – padre, non figlio.
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