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La corrente del Sud

I Fondi sovrani hanno investito cumulativamente all’estero circa 65 miliardi di dollari fino al 2008, di cui 57 solo nel periodo 2005-2008 (Unctad, 2009). Il boom del loro intervento nel momento dello scoppio della crisi ha inevitabili riflessi politici. Dell’avanzata di questi soggetti ci siamo già occupati nel numero 39 di Formiche (luglio 2009); qui vorremmo in un certo modo sottolineare le implicazioni geopolitiche del loro attivismo. Un attivismo che ha in primo luogo un impatto macroeconomico e finanziario: gli oltre 50 miliardi di dollari pompati dai Fondi sovrani nelle istituzioni dei maggiori mercati finanziari dalla fine del 2007, secondo un report del Fondo monetario internazionale (Sovereign wealth funds and financial stability, T.Sun-H.Hesse, marzo 2009), hanno contribuito a creare un “buffer” di capitale, un paracadute che ha abbassato la temperatura dei premi di rischio e stabilizzato i corsi azionari. Questo sostegno indiretto si è accompagnato ad interventi diretti, in qualità di nuovi azionisti, dentro i maggiori operatori del mercato bancario-finanziario angloamericano: Merrill Lynch, Citigroup, Morgan Stanley,  Barclays, Blackstone, Carlyle, Nasdaq, London Stock Exchange, Ubs. Una corrente dal Pacifico all’Atlantico ha “salvato” il sistema in cui erano nati i giganteschi scompensi speculativi della bolla. È inevitabile pensare ad un dividendo geopolitico che il capitale asiatico cercherà di riscuotere al momento della ripresa, momento che sembra stiamo vivendo. Si tratterebbe di un rimescolamento dei rapporti di forza che avevano caratterizzato il ciclo liberista partito proprio da Londra e Washington negli anni Ottanta. Come tutti i processi globali, quella liberalizzazione internazionale ha avuto un suo esito non previsto. Se un “partito cinese”, e domani un “partito indiano”, dovessero rafforzarsi nelle capitali occidentali, sarebbe probabilmente sulla scorta di questo riallineamento finanziario. Non senza controspinte, come è evidente, tanto che i primi segni della contesa interna al mondo occidentale potrebbero già essere osservabili. A partire da un “ritorno di fiamma euroatlantica” incarnato dall’approccio filoeuropeo di Obama, in contrasto con il filone asiatista, filo-indiano e filo-giapponese, di Bush.
 
Cambiamento di paradigma
In questo movimento verso nord, i Fondi sovrani sono stati anticipati di pochi anni da un’altra contro-corrente, quella degli investimenti esteri industriali delle multinazionali dei Paesi emergenti. I giganti mondiali dell’acciaio, la belga Arcelor e la britannica Corus Steel, finite rispettivamente nelle mani dei magnati indiani Mittal (2006) e Arcelor (2007), sono l’emblema di questo processo. In un certo senso, era inevitabile che la liberalizzazione mondiale dei capitali accendesse la fiamma dei giovani capitalismi del sud, trasformasse le potenze industriali regionali dell’arco meridionale e asiatico in potenze industriali-finanziarie globali. I Fondi sovrani appaiono quindi come veicoli di una forza economica asiatica autonoma dalla tutela del Washington Consensus. Si tratta anzi di operatori che stanno attivamente ristrutturando quel sistema di governance della globalizzazione, facendo sentire il maggior peso acquisito sul mercato mondiale. È poi possibile che perfino il segno culturale-religioso prevalentemente “occidentale” (o meglio protestante) dell’economia mondiale cominci ad essere ripensato, ad un secolo dal famoso saggio di Weber sullo spirito del capitalismo. Nei primi trenta Fondi sovrani, infatti, quattordici sono originati in Paesi islamici. Non è un caso quindi che si faccia strada, diventando sempre più parte del “mainstream” della tecnologia finanziaria occidentale, quell’insieme di strumenti obbligazionari e bancari che va sotto il nome di finanza islamica. Di recente un’obbligazione sukuk da 100 milioni di dollari è stata emessa dall’International finance corporation, emanazione della Banca mondiale. Segno che l’Occidente non si limita più a fornire piattaforme di mercato e canali per questo segmento, ma cerca di coglierne direttamente le opportunità; segno anche che non vi vede più una sfida “esotica”, ma un riflesso culturalmente accettato del maggior peso delle economie emergenti nel sistema finanziario globale, come sottolineato  dal governatore Mario Draghi in un recente seminario della Banca d’Italia. In questo contesto, non deve sorprendere il fatto che le autorità monetarie di Indonesia e Arabia Saudita nel marzo 2009 siano entrate a far parte del Financial stability board, proprio per riscrivere le regole del sistema post-crisi.
 
 
La cerniera mediterranea
Il connotato politico degli investimenti esteri di lungo periodo è incontrovertibile. L’investimento estero diretto “comporta una relazione di lungo periodo e che riflette un interesse durevole e il controllo di un soggetto residente in un’economia in un’impresa residente in un’altra economia”; esso “implica che l’investitore esercita un significativo grado di influenza sul management dell’impresa residente nell’altra economia”: nella stessa definizione dell’Unctad (Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo) è implicito un dato di minaccia. Ovvero la possibilità che l’influenza economica straniera sottragga “sovranità” economica ai Paesi ospiti dell’investimento; una possibilità che sembra riecheggiare ancor di più – e non solo semanticamente – se gli investitori sono Fondi sovrani, ovvero espressioni politiche più o meno dirette di un governo. D’altronde, perfino nei “liberali” Stati Uniti capita di ascoltare dichiarazioni sorprendentemente caute, come quella fatta dalla nuova assistente del Tesoro per i mercati internazionali, Marisa Lago, secondo la quale “i Fondi sovrani non sono meri investitori privati, ma piuttosto strumenti dei governi”. Meritevoli quindi di un attento scrutinio politico, laddove – pare di capire – la vigilanza di mercato non è più sufficiente. Come si vede, l’affermazione di un vero e proprio primato della politica, tanto nella sfida quanto nella risposta. Ma mentre lungo la faglia sino-americana si discute come affrontare le scosse di assestamento, nella dinamica tra cooptazione, collaborazione paritaria e scontro, si delinea, al riparo delle grandi masse politiche continentali, una strategia ambiziosa, anche se condotta con basso profilo. È, se vogliamo, la via italiana alle nuove rotte finanziarie, quelle che dai Paesi del Consiglio della cooperazione del Golfo Persico risalgono lungo gli Stretti e giungono in Europa. Una scelta già iscritta nella rilettura del Mediterraneo come Mediterraneo Allargato, originale composizione di Africa settentrionale e Medio Oriente, dove non da oggi si è concentrata la proiezione economica delle imprese italiane (vedi tabella). E non da oggi (basti pensare agli investimenti del fondo libico in Fiat negli anni ‘80 o in Capitalia negli anni ‘90), è presente in Italia una corrente araba, che sta crescendo come cresce la presenza di multinazionali dei Paesi emergenti. Secondo il rapporto Italia Multinazionale 2008 (Ice-Politecnico di Milano, 2009), dal 2000 a fine 2007 quelle attive in Italia sono aumentate del 35% in numero, del 53% in partecipazioni detenute e del 119% in numero di dipendenti sul nostro territorio, con un fatturato raddoppiato nel periodo a 34,6 miliardi di euro. Nel quadro di una sostanziale continuità con una nostra politica estera tradizionale, che ha avuto un’accelerazione con la fine dei blocchi, l’Italia può proporsi come interprete di un’intermediazione flessibile tra esigenze di difesa dei settori competitivi fondamentali ed apertura al capitale estero, in una chiave di reciprocità che privilegi magari la formazione di mercati integrati sulla sponda sud per le imprese del Mezzogiorno. Nel quadro del Mediterraneo Allargato, in cui rientrerebbero gli apporti dei Fondi sovrani del Golfo, sarebbe quindi affidata alla politica estera la ricerca di quel “fine balance” tra bisogno di capitali freschi e tutela da interferenze in settori strategici invocato dagli esperti (Are SWFs welcome now?, V.Fotak-W.Megginson, Columbia Fdi Perspectives, luglio 2009), un equilibrio che il mercato, da solo, non può trovare. Un compito difficile, come si vede. Ma, come illustrano qui di seguito gli interventi del presidente di Simest e del ministro Matteoli, le strutture e le esperienze non mancano.
 
 
 
 


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