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Themis/ Libertà passioni virtù

“Questi era un uomo!”. Così, nel Giulio Cesare di William Shakespeare, Antonio rende omaggio alla memoria di Bruto, dopo aver appreso che si era fatto dare la morte da un servo. Per Antonio, che lo stava combattendo a seguito dell’assassinio di Cesare, Bruto “fu il più nobile di tutti i romani” perché aveva partecipato alla congiura “col pensiero al bene generale dello stato”. Per Cicerone, l’onore è uno dei valori fondanti del decorum, che non concerne più solo il servizio dello Stato, ma investe tutte le azioni umane. Cicerone dedica il De officiis a insegnare una condotta – in politica, nell’economia ma anche nel privato – coerente con i doveri che gravano sull’uomo in quanto “partecipe della ragione”. L’importanza della virtù è riscoperta nel Seicento quando il disincanto del mondo esige un nuovo fondamento per l’azione etica e Cartesio, con il suo appello alla générosité, la trova nel vivere all’altezza della propria dignità di essere razionale: un parametro autorefenziale che marca il valore intrinseco dell’uomo. Spiega ne “L’età secolare” C. Taylor: “La generosità. Questa parola aveva un significato un po’ differente nel Seicento. Designava il senso vivido che uno aveva del proprio rango sociale e dell’onore che gli attribuiva, che lo motivava a vivere all’altezza degli obblighi della propria posizione … Cartesio, tuttavia, sposta la nozione dallo spazio pubblico, e dall’ambito dei ranghi socialmente definiti, nell’ambito interiore della conoscenza di sé … il rango alla cui altezza devo mantenermi è quello non socialmente definitivo dell’agente razionale. Vivere all’altezza della propria dignità di essere razionale è questo senso della dignità che secondo Cartesio è ‘quasi la chiave di tutte le altre virtù, e un rimedio generale contro tutti gli eccessi delle passioni’ ”. Le parole di Cartesio, però, sono anche da commiato a questa “autobiografia minima” della virtù come valore sociale. La modernità non lo seguirà su questa strada. Si deve a Leo Strauss la più dura evidenza del nuovo paradigma filosofico-politico che vede l’ordine politico basato sulle passioni, in contrapposizione con quello dell’antichità che è basato sulla virtù. Per lo studioso la filosofia politica moderna nasce con un rovesciamento di prospettiva: laddove nei classici il primato è della legge naturale (Platone, Aristotele), nei moderni è nel diritto (Machiavelli, Hobbes, Locke). Al dovere si sostituisce la libertà. Secondo Strauss, dopo la rivoluzione radicale compiuta da Machiavelli e l’introduzione di un concetto di virtù che ha senso e valore effettuale, il desiderio di autoconservazione di Hobbes si trasforma con Locke in desiderio di proprietà, perché anche i beni con le armi necessitano all’uomo per la propria autoconservazione.  “La soluzione del problema politico attraverso mezzi economici è la soluzione più elegante una volta accettata la premessa di Machiavelli: l’economicismo è il machiavellismo divenuto adulto”, è il suo epitaffio. Non bisogna necessariamente riconoscersi nella filosofia straussiana per cogliere la distanza tra la concezione classica e quella moderna, che con Adam Smith ha svelato e consacrato l’utilità sociale delle passioni (del birraio e del fornaio). Nella modernità, l’economia è mossa dagli interessi individuali che non vengono denunciati ma legittimati, come accade nella Favola delle api di Mandeville. Insomma, il perseguimento dell’interesse individuale viene considerato lo strumento più efficace per la soddisfazione dei bisogni materiali della società, con la conseguenza che occorre lasciare il singolo libero di fare quello che vuole. L’economia si scioglie dal rapporto con la virtù. Si scioglie e contrappone, in quanto la virtù da regola e valore diventa ostacolo e dis-valore da non tollerare e combattere (vedi quanto accade nel settore dei servizi professionali dove l’Antitrust pretende, in nome della libertà economica degli operatori, di sottrarre i rapporti economici alle regole deontologiche). Il paradosso è che anche l’orizzonte dell’ordine basato sull’interesse individuale è quello della moralità, come mette in evidenza L. Dumont: “Se l’ambito economico sfugge alla supremazia generale e alla giurisdizione della morale, è grazie al riconoscimento del fatto che esso ha un carattere morale proprio: il meccanismo automatico lavora per il bene comune”. E’ sempre il bene comune che giustifica il laissez-faire e poco importa se nel frattempo i singoli hanno consegnato la loro anima al Diavolo! Ora, la ricetta dei Grandi della Terra per uscire dalla crisi è quella di riscrivere le regole dei mercati globali. Ma in un sistema che si fonda ed esalta l’interesse egoistico, potranno mai le regole impedire agli operatori di escogitare nuove formule e strumenti per realizzare il “proprio particulare” anche a discapito della collettività?
 



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