Inauguriamo questa rubrica in un momento particolare per l’UE. Nuove prospettive sembrano aprirsi per il sistema istituzionale che ci ha garantito le condizioni fondamentali per la nostra società: pace, libertà e sviluppo economico.
Le condizioni attuali rendono il momentum fisiologico. La consapevolezza della dimensione globale di alcuni beni pubblici (ambiente) e di alcuni mercati (finanza) chiama l’UE ha giocare un ruolo almeno pari al suo peso economico, smentendo chi tende ad escluderla dal dialogo Stati Uniti – Cina, sostanza di un forum tanto necessario (per rappresentatività) quanto inefficace (per eterogeneità) quale il G20.
In questo contesto si insedia la nuova Commissione europea, l’istituzione sovranazionale che, nel perseguire gli obiettivi indicati dal Trattato, propone mediazioni tra i diversi interessi di 27 governi nazionali e di un Parlamento europeo che acquista maggior potere in virtù del suo legame privilegiato, in quanto diretto, con 500 milioni di cittadini.
Per il prossimo quinquennio, José Manuel Barroso dovrà rilanciare. Il suo secondo mandato è l’occasione per entrare nella storia, come nel caso dell’unico predecessore che ha presieduto la Commissione per due mandati: Jacques Delors.
Nel novembre 2004 Romano Prodi usciva di scena tra le critiche di The Economist e Financial Times ma con al petto due medaglie: l’introduzione della moneta unica – l’euro – in un gruppo significativo di Paesi membri e un allargamento dell’Unione di grande valenza politica: dieci nuovi Paesi, molti dei quali orfani della forza politica dell’URSS e dell’economia pianificata. Con questi precedenti, Barroso cominciava il suo primo mandato prendendo in mano due processi-chiave lanciati formalmente nel 2000: una revisione dei Trattati per consolidare lo spirito europeo con una sorta di “Costituzione” e una Strategia per rafforzare la competitività dell’economia europea entro il 2010 inseguendo gli Stati Uniti sulla cresta dell’onda della New Economy.
Piccolo problema: in entrambi i processi, il potere della Commissione è debole. La ratifica del Trattato costituzionale si arresta quando i suoi contenuti vengono eclissati dalla forza del populismo domestico rappresentato da Jacques Chirac (in cerca di nuovo consenso con il referendum dopo un disastro per il suo UMP alle elezioni amministrative) e dall’idraulico polacco (simbolo di un libero mercato in cui la concorrenza proveniente dall’Est avrebbe mandato i rovina gli idraulici francesi).
Rimane in piedi la Strategia di Lisbona sulla quale Barroso, forse anche per i suoi natali, mette la faccia. E nel vero senso della parola. nelle prime settimane del 2005, nel portale internet dedicato, appariva il volto di un Barroso sorridente a fianco della scritta “Growth and Jobs”, il nuovo nome della Strategia di Lisbona; dal punto di vista semantico con “Crescita e Occupazione” è più facile far capire ai cittadini europei la direzione intrapresa dall’UE.
Ci avviciniamo alla scadenza fisiologica di “Crescita e Occupazione”, quali i risultati? Il PIL, seppur imperfetto nel cogliere gli auspici di un governo (come è difficile misurare una crescita sostenibile) e di un cittadino (e come è difficile misurare la felicità), continua ad essere un indicatore fondamentale: dal 2000 al 2009 questo è cresciuto nell’UE ad un tasso medio annuo del 1,57%, tasso comunque inferiore all’1,87% degli Stati Uniti i quali continuano ad avere una ricchezza pro-capite (misurata in potere di acquisto) superiore del 50%. Sul fronte dell’occupazione, l’UE è passata dal 62,2% del 2000 al 65,9% del 2008, comunque 5 punti percentuali in meno degli Stati Uniti. Se consideriamo altre variabili rilevanti per la competitività quali la ricerca e sviluppo, e l’educazione, possiamo dire che i risultati per l’UE non sono esaltanti rispetto alle ambizioni di dieci anni fa. Ambizioni che devono scontare una serie di fattori per lo più esogeni quali l’esplosione della bolla della new economy, gli attentati dell’11 Settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq, la crescita del prezzo del petrolio e la crisi finanziaria con le sue conseguenze sull’economia reale. Una mitragliata che ha messo sotto pressione le tesorerie dei Paesi membri, già vincolati dalle regole di Maastricht su deficit e debito pubblico.
Tuttavia l’insuccesso della Strategia di Lisbona (“Crescita e Occupazione” dopo il 2005) non è da addebitare esclusivamente alla mancanza di risorse economiche, ma c’è da considerare un problema politico. Coerentemente con il modello di economia sociale di mercato (modello adesso esplicitato nel Trattato di Lisbona) bisogna applicare la regola chiave dell’economia di mercato: la concorrenza. Questo per esaltare le capacità dei soggetti economici (territori, imprese e lavoratori) migliori e “accompagnare” chi, nell’immediato, è meno efficiente e resta quindi escluso dalle dinamiche del mercato. Una riallocazione complessivamente più efficiente delle risorse, grazie a mercati più ampi e più liberalizzati, richiede tuttavia del tempo (investimenti infrastrutturali, ristrutturazioni aziendali, corsi di formazione). Il tempo per beneficiare delle riforme adottate, può essere più esteso della normale durata di un ciclo elettorale. Pertanto qualsiasi riforma ispirata legittimamente dai principi del mercato unico europeo, rischia nel breve periodo di essere un boomerang elettorale se non comunicata e compresa dai cittadini.
Per questo motivo Barroso apre il suo secondo mandato proponendo il seguito di “Crescita e Occupazione” denominato “UE 2020” ponendo grande attenzione sulla governance. Nel capire “chi fa cosa” si evince infatti che gli ambiti di intervento in cui si attendono i progressi principali sono in mano dei governi nazionali, soprattutto se si considera l’esiguo budget dell’UE (neanche il 2% del PIL dei 27 Paesi) e la base giuridica (buona parte del welfare e del fisco ricade nella sovranità degli Stati).
Responsabilità degli Stati membri da leggere alla luce della riflessione di Jean-Claude Juncker: “tutti sappiamo cosa fare; ma una volta realizzata, non sappiamo come essere rieletti”. Vedremo come la Commissione proporrà di interpretare il principio di sussidiarietà per risolvere la questione posta dal premier lussemburghese. E nei legittimi pensieri di tutti i leader politici