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Ue/ Piccole misure di economia sociale di mercato

Crescita, coesione e stabilità. Questa la triade di obiettivi che emerge dai primi articoli dei trattati e dai documenti ufficiali dell’UE. La crescita economica è il desiderio legittimo di un qualsiasi governo: maggior benessere per i propri cittadini, innanzitutto in termini assoluti per garantire condizioni di base e in secondo luogo in termini relativi, ovvero rispetto ad altri Paesi, per attrarre le risorse migliori alimentando la propria competitività. Nell’UE si parla di crescita sostenibile, con una gestione efficiente delle risorse complessive intese secondo un’accezione sia geografica (le risorse ambientali sono extraterritoriali) che temporale (considerare l’eredità per le generazioni future), e una distribuzione dei benefici della crescita sufficientemente diffusa per evitare eccessive diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Una maggiore coesione, inoltre, ha un impatto positivo sul sistema decisionale dell’UE in quanto riducendo l’eterogeneità sul territorio è più facile prendere decisioni centralizzate efficienti. Su quest’ultimo punto, basta ricordare le regole omogenee del Patto di Stabilità e Crescita per permettere alla Banca Centrale Europea che il tasso di sconto scelto sia in linea con le caratteristiche dei Paesi che fatto parte dell’Unione Economica e Monetaria.
Proprio con l’UEM la stabilità ha ricevuto la dovuta attenzione, ponendo come obiettivo la stabilità dei prezzi e quindi la solidità dei conti pubblici dei Paesi membri. Garantire un’inflazione minima non è solo un obiettivo finanziario ma anche sociale. La gente ha fiducia nella stabilità quando mette da parte i propri risparmi per avere risorse negli anni futuri e inoltre, una finanza pubblica solida permette di mantenere bassi i tassi di interesse e quindi stimolare nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro.
Nel perseguire questi tre obiettivi, l’UE ha scelto l’economia sociale di mercato. Modello che a prima vista può suonare un paradosso: la regola del mercato secondo la quale “vince il più forte” è in aperta antitesi con ciò che ha una dimensione collettiva. Il set di politiche comunitarie sviluppate da oltre cinquanta anni prova tuttavia a coniugare i benefici della concorrenza, con l’intervento pubblico necessario a corregge i fallimenti del mercato e auspicato per ridistribuire le risorse generate in maniera non assistenziale.
Utilizzando qualche dato Eurostat, proviamo a valutare a che punto siamo.
Con i due terzi del commercio dei 27 Paesi membri che si realizza all’interno dell’UE e con una maggiore trasparenza sui prezzi grazie alle nuove tecnologie, ci aspettiamo una riduzione dei differenziali di prezzo tra i Paesi. Se misuriamo la deviazione standard del prezzo di un paniere di beni finali (comprensivo di tasse indirette) possiamo avere un primo segnale della qualità delle politiche orientate al mercato, quali la creazione del mercato unico. Fatta 100 la dispersione dei prezzi nel 1997, nel 2008 questa è scesa del 28% nell’UE 27 ma soltanto del 2% nell’eurozona con 12 Paesi. Questi trend si inseriscono in una discesa dei prezzi per alcuni servizi, quali telecomunicazioni e trasporto aereo, dimostranndo l’efficacia di alcuni processi di liberalizzazione a livello comunitario.
 Tuttavia i benefici del commercio e della concorrenza possono essere distribuiti in maniera non uniforme tra i Paesi, regioni, imprese e cittadini. Un potenziamento del mercato determina infatti una polarizzazione delle attività economiche nelle regioni più ricche e produttive, determinando un’agglomerazione delle risorse (specialmente nella cosiddetta “blue banana” che va da Londra a Milano passando da Amsterdam, Bruxelles e Francoforte) e aumentando le differenze all’interno dell’UE.
In attesa dei benefici di una riallocazione più efficiente delle risorse grazie alla concorrenza, interviene il lato “sociale” del modello europeo grazie alla politica regionale e di coesione, con i suoi fondi strutturali e con gli aiuti ad hoc. Tale politica ha sicuramente contribuito a ridurre le differenze di PIL in parità di potere d’acquisto a livello nazionale tra i 27 Paesi. Tuttavia se consideriamo le differenze a livello regionale all’interno di ciascun Paese il quadro non è rassicurante. Nel periodo 1995-2006 i Paesi principali dell’UE non attenuato le differenze di ricchezza al loro interno; e se il nostro Paese è riuscito a contenere questo divario (-1,2%), in Francia e Germania è aumentato (+6% e +4%) ed è esploso nel Regno Unito (+31,6%).
L’economia sociale di mercato non si può ridurre a due semplici indicatori; ma nella loro semplicità fanno emergere la necessità di un rinnovato impegno dell’UE per sostenere la sua legittimazione agli occhi dei cittadini.
 

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