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Tornano i mercanti

La condizione normale delle relazioni tra nazioni, anche alleate, è il conflitto.  Questo può essere più o meno intenso,  diretto o indiretto, esplicito o nascosto. Il sistema internazionale corrente sta mostrando, pur non ancora la frammentazione del mercato globale, un aumento del ricorso a conflitti a bassa intensità, indiretti e nascosti per fini mercantilistici da parte di quasi tutti gli Stati nazionali che hanno i mezzi per farlo. Non può dirsi “guerra economica” di tutti contro tutti. Non è nemmeno rilevabile un incremento di protezionismi espliciti, pur quelli impliciti in aumento. Ma è definibile come maggior peso del fattore geopolitico nel commercio internazionale, in relazione alla situazione del mercato globale di pochi anni fa. Perché?
Va premesso che il supporto strategico degli Stati alle imprese nazionali ingaggiate nella penetrazione dei mercati esteri è una situazione normale. Quello che sembra cambiato è: (a) la quantità di concorrenti che competono per conquistare ogni singolo mercato; (b) il maggiore controllo governativo dei mercati bersaglio, nei Paesi emergenti e a domanda crescente di investimenti non copribili con risorse nazionali. Inoltre sono rilevabili due altri mutamenti che in parte spiegano quelli sopra citati. L’Impero americano, durante la Guerra fredda, pur imponendo i propri interessi nei settori economici chiave, aveva interesse a lasciare qualche spazio agli alleati sia asiatici sia europei per motivi di coesione dell’alleanza antisovietica. Ora questo requisito non è più una priorità e l’America si comporta come un competitore, molto agguerrito e sostenuto da centrali informative e di supporto governativo con grandi mezzi, nei confronti degli ex-alleati. Per tale motivo le imprese francesi, tedesche, italiane, coreane, nipponiche, ecc. hanno dovuto aumentare anch’esse il ricorso a supporti governativi per chiudere affari nei mercati bersaglio. Tale fenomeno è stato amplificato dall’irruzione, sempre più estesa a partire dal 2006, della politica cinese, con un enorme apparato di supporto non solo alimentato da intelligence e risorse diplomatiche, ma anche di capitali abbondanti, finalizzata a conquistare i mercati delle risorse prime, per lo più nelle nazioni emergenti, e posizioni di influenza strategica in quelli ricchi. Recentemente il fenomeno complessivo ha avuto maggiore visibilità perché la recessione globale 2008-09 ha spinto molte nazioni esportatrici ad aumentare la pressione competitiva esterna per far lavorare le proprie imprese, in particolare quelle europee.
In sintesi, al momento sembra che ogni business medio-grande debba essere messo nell’agenda bilaterale tra due nazioni per poter essere chiuso. La prima conclusione è che nella concorrenza economica internazionale la disponibilità per un’azienda di un forte supporto governativo sta diventando sempre di più un fattore competitivo, pochissimi gli spazi di mercato lasciati al gioco concorrenziale normale, non politico. 
La crisi ha reso anche più rilevante la disponibilità di capitale finanziario come fattore competitivo. Ovviamente questa non è una novità. Ma lo è l’asimmetria osservabile tra soggetti industriali e  finanziari di nazionalità cinese in relazione agli altri. I primi possono godere di una massa di capitale, o ricavato da riserve governative o dato a credito per fini strategici senza preoccupazioni di merito economico, tale da battere i competitori. Porti, ferrovie, aziende di tecnologia, automobilistiche, ecc., stanno cadendo come birilli in mani cinesi, dappertutto.  Semplificando, il business cinese sta conquistando con velocità impressionante posizioni strategiche sia nei mercati emergenti sia in quelli emersi grazie a questo fattore di potenza. Va aggiunto che il governo cinese, con disponibilità di riserve in dollari pari a circa due trilioni, ha un interesse razionale ad utilizzare questo monte di capitale per investimenti diretti di espansione, in un momento di scarsità della liquidità diffusa a disposizione dei concorrenti,  a beneficio delle sue imprese, piuttosto che impiegarlo per investimenti finanziari vulnerabili alla tendenza a scendere del valore di cambio del dollaro stesso.
Ma anche al netto della peculiare situazione di crisi, che entro un biennio dovrebbe risolversi, le tendenze dette appaiono consolidarsi e diventare un motivo selettivo duraturo nel sistema internazionale. Chi potrà sopravvivere, in prospettiva?
L’America, con poca tradizione esportatrice, sta usando  la svalutazione competitiva del dollaro per aumentare l’export in modo da pompare la crescita interna rallentata dalle riparazioni dovute alla crisi. Il dollaro ha una tendenza a scendere come riassestamento dovuto all’alto debito. Da un lato, non è probabile che scenderà oltre una certa soglia perché ciò comprometterebbe il mercato finanziario, in particolare borsistico, interno. Pertanto la competitività valutaria dovrebbe essere una soluzione temporanea. Ma certamente l’America sosterrà con più forza le proprie imprese tecnologiche, riuscendo ad imporre molti contratti per via politica. Resterà, pertanto, un attore primario globale e sopravviverà anche se perderà forza di penetrazione globale a causa dell’indebolimento delle sue megabanche di investimento falciate dalla crisi finanziaria. Tale spazio sarà riempito da quelle cinesi. Tuttavia, il mercato interno americano dei beni reali e finanziario resterà sufficientemente forte  per mantenerlo centro del mondo, almeno per un po’ di tempo. Ma dovrà fare più export e tale esigenza metterà l’America in conflitto con gli europei ed i giapponesi perché l’oggetto di esportazione riguarda sistemi tecnologici che questi producono e non, ancora, la Cina.  
La Cina, in base alle tendenze attuali, appare il vincente del nuovo conflitto mercantilista. Non si riesce ancora a capire con precisione quale sia la condizione di vittoria definita e perseguita dalla strategia di Pechino.  Tuttavia, alcuni obiettivi sono chiari. Dominio via imprese proprie della catena di fornitura delle materie prime alla madrepatria (idrocarburi, cibo, minerali) compresi i sistemi di trasporto (porti, navigazione, ferrovie nei casi dove siano rilevanti, oleodotti e connessi, ecc.). Ciò è sensato perché assicura gli approvvigionamenti ed il controllo dei loro costi, una priorità assoluta per sostenere lo sviluppo industriale del sistema cinese. Poiché è enorme quello interno, la strategia di dominio detta deve avere per forza un raggio globale. E per questo tutto i peso delle risorse governative e capitali della Cina è a supporto delle imprese che sono mezzi per il fine detto. Per esempio, a partire dal marzo 2007, Pechino ha inaugurato uno stile di contratto con i Paesi emergenti governati da dittature del tipo: protezione politica e soldi al regime in cambio del monopolio o quasi della gestione delle materie prime residenti per imprese cinesi nonché il voto della nazione all’Onu. Recentemente Pechino ha inaugurato contratti di influenza con Paesi emergenti più orientati al partenariato che non al dominio secco, per esempio con il Brasile, offrendo capitali di investimento e convergenza politica più che influenza. Ma, appunto, lo scopo appare chiaro e razionale, non necessariamente aggressivo. Molto meno chiaro è lo sviluppo della strategia cinese verso i mercati maturi occidentali e giapponese, coreano e australiano, dove è visibile il tentativo di prendere, anche a costi maggiorati, posizioni di influenza strategica. Qui lo scopo appare più di influenza geopolitica attraverso dominio degli snodi economici. 
Le nazioni più in difficoltà, a parte Giappone e Corea in via di assorbimento da parte della Cina, sono quelle europee. I loro governi fanno fatica a sostenere le penetrazioni commerciali perché contrastate da cinesi ed americani, per esempio la Francia ha perso l’influenza sulla parte di Africa che dominava per mano di Pechino, e dai cugini europei stessi. La Germania, basata su un modello di export globale per compensare la poca crescita interna dovuta ad un modello troppo generoso di welfare e rigido sul piano delle garanzie, sta perdendo posizioni dappertutto e diventando più aggressiva per mantenerle nei luoghi dove può. In questa situazione imprese italiane, e rispettivi governi, si stanno scontrando sempre più spesso nei Balcani, nel Mediterraneo ed in Russia, con inserimenti crescenti dei francesi. Ma, ne contesto qui abbozzato, sembra una lotta tra poveracci in un perimetro di mercato/influenza sempre più ridotto dalle offensive mercantiliste cinesi ed americane, senza dimenticare l’emergere delle iniziative indiane. Quindi, per dare una conclusione raccomandativa alla segnalazione delle tendenze dette, pare scontato suggerire una urgente riflessione che comporti un’alleanza tra europei per potenziare il loro business nazionale a contrasto di America e Cina, oltre che far girare un mercato interno più grande,  piuttosto che massacrarsi tra nani. 
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