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Themis/ Dialogare e liberalizzare: il binomio possibile

Nell’antica Grecia, per varare una nuova legge era necessario che i Nomoteti dessero il loro consenso, avendo ritenuto prioritarie le esigenze di governo rispetto alla tradizione, dopo aver confrontato le opposte tesi. Ai nostri giorni, invece, non si contano le iniziative per riformare questo o quell’articolo della Costituzione. Anche il governo, per dar corso al suo programma per la libertà di impresa, ha approvato un disegno di revisione degli artt. 41 e 118 Cost., che sarà affiancato da una legge ordinaria per le misure propulsive e di deregulation. Altro non è ancora dato conoscere e non sappiamo se o come sarà introdotta quella “norma rivoluzionaria” tracciata, nell’intervista al Corsera del 31 maggio 2010, da Tremonti: «Tutto è libero tranne ciò che è vietato dalla legge penale o europea».
Autorevoli voci della dottrina costituzionale, e non solo, hanno espresso dubbi sull’esigenza di modificare la Costituzione per rilanciare la libertà di impresa. E, in vero, pur comprendendo il valore programmatico della decisione del governo di introdurre nell’art. 118 l’autocertificazione e la segnalazione di inizio attività, questi istituti non sembrano all’altezza dei principi consacrati in quella che, un tempo, si chiamava la Carta fondamentale. Vero è che non sarebbe nemmeno necessario attendere il varo di una legge ordinaria per iniziare a sgravare le imprese dei lacci e lacciuoli che ne ingessano la competitività. A marzo, il ministro delle Politiche europee, Andrea Ronchi, ha licenziato il decreto legislativo che recepisce la Direttiva Bolkestein e liberalizza i servizi imprenditoriali e professionali (dlgs. n. 59/2010).
 
La legge comunitaria 2008 (che ha conferito la delega) ha, altresì, previsto che nei successivi 24 mesi il governo possa adottare i provvedimenti per correggere e integrare il decreto appena entrato in vigore. La delega è, quindi, ancora aperta e la sua portata è tale da consentire un intervento immediato, organico e soprattutto in linea con l’impianto comunitario. La Direttiva prevede la liberalizzazione dei regimi autorizzatori, la semplificazione delle procedure amministrative e il sistema dello sportello unico. Sono gli obiettivi a cui sta lavorando il governo. La legge comunitaria ha disposto che le norme attuative trovino applicazione anche agli operatori italiani al fine di evitare ogni possibile effetto discriminatorio. E, infatti, il decreto legislativo che ha recepito la Direttiva Servizi interviene anche sull’ordinamento interno nel rispetto del riparto di competenze con le Regioni, che Tremonti ha indicato tra i principali ostacoli alla realizzazione delle liberalizzazioni. Prima di ricorrere a nuove leggi, sarebbe allora auspicabile riprendere la delega ancora aperta della legge comunitaria. Dal punto di vista tecnico, perché prima di varare nuove leggi sarebbe opportuno verificare e, se del caso, perfezionare quelle esistenti, soprattutto se di origine comunitaria (molti dei lacci tremontiani non saranno più tali quando la Direttiva sarà a regime). Ma anche dal punto di vista sociale. Diversi ministri hanno stigmatizzato i veti incrociati che le lobby oppongono alle riforme. Il metodo seguito per la Direttiva Bolkestein dimostra che il problema può essere superato. La Direttiva era stata duramente contestata, perché le sue disposizioni toccano punti nevralgici del sistema economico-sociale ma, nel suo insieme, il provvedimento che l’ha recepita è stato positivamente accolto dalle categorie interessate. Certo, come intuì Guido Carli, l’esistenza di vincoli derivanti dall’Unione europea ha aiutato, anzi possiamo dire che è stato decisivo per vincere le ultime resistenze. Ma è anche vero che le categorie sono state coinvolte nell’iter di recepimento sia da parte del ministero, che a tal fine ha istituito un Tavolo tecnico di confronto, sia dalle Commissioni parlamentari che hanno espresso il parere dopo aver proceduto alle audizioni. In un momento di crisi come l’attuale, decisioni di sistema, come quelle annunciate dal governo, non possono essere realizzate senza aver costruito il necessario consenso sociale.
 
Quello degli imprenditori non è sufficiente perché, almeno formalmente, ne sono i diretti beneficiari. Serve che anche le altre categorie di operatori che saranno coinvolte – e, forse, pregiudicate – dalle liberalizzazioni, comprendano le ragioni e la logica degli interventi, se non si vuole aprire una nuova stagione di conflittualità sociale. Ecco perché può essere importante innestare parte delle liberalizzazioni nel dialogo rimasto aperto sulla Bolkstein.


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