Il governo e le parti sociali hanno posto le basi per traghettare le nostre relazioni industriali nel nuovo millennio, affermando nel Protocollo del 22 gennaio 2009, il principio cosiddetto dell’opting out, in base al quale per scongiurare crisi aziendali, aumentare i livelli occupazionali o attrarre nuovi investimenti, i contratti collettivi aziendali possono derogare ad alcune delle tutele previste dai contratti collettivi nazionali. Il problema è che il sindacato, o meglio la Cgil, schiacciata sulle posizioni della Fiom, è fermamente contraria a questo principio.
Di fronte alla globalizzazione e allo spietato dumping sociale di cinesi, indiani, brasiliani e tanti altri si arrocca nella difesa di un sistema di relazioni industriali costruito sul contratto collettivo nazionale di categoria contrastando, con scioperi e cause seriali, qualsiasi tentativo di stemperare la novecentesca contrapposizione tra capitale e lavoro in nome di punti di incontro più avanzati e partecipativi che consentano alle imprese di competere sui mercati internazionali. Così, se negli Stati Uniti Obama ringrazia Marchionne, che pure ha richiesto ai lavoratori e alla Uaw notevoli sacrifici in termini di tutele e remunerazioni, perché lo considera il paladino di nuove forme di collaborazione tra capitale e lavoro, sui nostri quotidiani nazionali la Fiom lo accusa di trattare i lavoratori alla stregua di schiavi e di attentato ai diritti costituzionali. Il tutto, perché, prima di riportare a Pomigliano la produzione della Panda, ha deciso di avvalersi della clausola dell’opting out, per migliorare la produttività dello stabilimento campano, reprimere l’assenteismo anomalo e stemperare la conflittualità permanente, nonostante il veto della Fiom. È questa la grande contraddizione che paralizza l’economia italiana. A parole diciamo che vogliamo competere nell’economia globale, ma poi lasciamo che alcuni teppisti intimidiscano, con i fumogeni, i riformisti che propongono soluzioni durante le feste di partito, come è accaduto a Torino a Raffaele Bonanni e a Pietro Ichino, e, più in generale, ci lasciamo paralizzare da quei sindacati che protestano perché non vogliono rinunciare a tutele che non ci possiamo più permettere, semplicemente perché non produciamo abbastanza ricchezza. È inutile girarci intorno. Il vero problema dell’economia italiana è la scarsa produttività delle sue aziende che, come dimostrano i dati Istat, è praticamente ferma da dieci anni ed anzi quest’anno decresce del 2,7%. Se la produttività diminuisce, il Paese si impoverisce, perché vengono a mancare le risorse, in termini di tasse e contributi, che servono a pagare il costo dei diritti, e la disoccupazione aumenta perché le imprese emigrano all’estero. Ora, come dimostra l’esperienza tedesca, per contrastare questo crollo della produttività e ricominciare a creare sviluppo e quindi occupazione, gli imprenditori devono trovare il coraggio di fare gli investimenti necessari a migliorare i processi produttivi e i lavoratori devono avere la capacità di rinunciare ad alcune tutele, come ad esempio alla rigidità di alcuni orari di lavoro, al fine di assicurare la migliore produttività degli impianti. Il problema, però, è che nell’attuale sistema di relazioni industriali ciò può non bastare, perché, se anche gli imprenditori sono disponibili a fare quegli investimenti e i lavoratori ad affrontare quei sacrifici, basta l’opposizione di un solo sindacato per compromettere l’efficacia dell’accordo e, con essa, la produttività dell’azienda.
Ciò dipende dal fatto che l’attuale sistema di relazioni industriali, proprio a causa della mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione, non si regge sul principio democratico, in base al quale la maggioranza decide e la minoranza si adegua, ma sull’unanimismo o meglio sull’unità di azione delle principali confederazioni sindacali e quindi di Cgil, Cisl e Uil. Così, come dimostra l’esperienza di Pomigliano, nonostante l’art. 16 del Protocollo del 22 gennaio 2009 preveda la clausola dell’opting out e seppure la maggioranza dei lavoratori si dichiara favorevole alla sottoscrizione del contratto collettivo aziendale che deroga a quello nazionale, basta il veto della Fiom, che invece ha sottoscritto il nazionale ma è contraria all’aziendale, per comprometterne l’efficacia trascinando l’azienda in un vero e proprio “vietnam” sindacale fatto di scioperi, contenziosi seriali e delle altre azioni di lotta che la fantasia sindacale può produrre. Per questo Marchionne, prima di emigrare all’estero e dopo aver registrato il fallimento del tentativo di migliorare la produttività dello stabilimento di Pomigliano avvalendosi della clausola dell’opting out, ha minacciato di uscire dal sistema confindustriale per sottoscrivere un nuovo contratto collettivo che non esponga la Fiat alla guerriglia sindacale della Fiom. Per le stesse ragioni la Federmeccanica ha deciso di recedere dal contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici per sottoscrivere con la Cisl, la Uil e tutti gli altri sindacati un nuovo contratto collettivo nazionale che sia valido ed efficace.
Per questo, il governo e tutte le parti sociali, sono pronte a procedere, nonostante il veto della Fiom, ad una rifondazione dell’attuale sistema di relazioni industriali, seguendo la via tracciata dal Protocollo del 22 gennaio 2009. Sulla scorta dell’esperienza tedesca, hanno compreso che, per contrastare le crisi d’azienda, aumentare i livelli occupazionali, attrarre investimenti, è indispensabile aumentare la produttività delle aziende. Ma anche che, per farlo, non è più possibile indugiare nella ricerca di astratti unanimismi, perché la globalizzazione corre mentre la produttività del nostro sistema economico ristagna da più di dieci anni. Certo, si tratta di una sfida difficile e di un passaggio delicato che potrebbe avere effetti destabilizzanti e per questo è fondamentale che la Cgil si liberi dalla morsa della Fiom per partecipare a questo processo. Ma difficilmente gli altri torneranno indietro. Anzitutto, perché questo sistema di relazioni industriali, basato sull’egemonia della legge e del contratto collettivo nazionale di categoria, non rappresenta il più avanzato baluardo dei diritti dei lavoratori, anzi è un residuo del periodo corporativo, quando l’unanimità era imposta per legge e la categoria era definita in via amministrativa. In secondo luogo, perché non vedo che cosa ci sarebbe di strano se un gruppo che occupa in Italia alcune decine di migliaia di dipendenti, ma ne ha molti di più in giro per il mondo, volesse introdurre delle regole non dico comuni (perché sarebbe impossibile) ma armonizzate e quindi compatibili nei diversi stabilimenti diffusi nel pianeta (ad esempio un’armonizzata disciplina degli orari di lavoro da Auburn Hills a Tichy, passando per Pomigliano).
In terzo luogo, perché la nostra Costituzione si basa sul principio della maggioranza e non su quello dell’unanimità. E la maggioranza dei lavoratori ha capito che è meglio avere uno stabilimento nel quale si deroga ad alcune delle tutele previste dal contratto collettivo nazionale per creare occupazione e attrarre investimenti necessari, che indugiare nella sterile difesa di tabù novecenteschi, come l’egemonia del contratto collettivo nazionale di categoria, che rischiano di compromettere l’occupazione di migliaia di lavoratori.
Infine, perché problemi nuovi richiedono soluzioni nuove ed è giunto il momento di ricercarle.