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La lezione del Golfo

Sono passati vent’anni dal giorno in cui Saddam Hussein, allora incontrastato padrone dell’Iraq, invase il Kuwait. Ciò che seguì fu la prima grande crisi internazionale dopo la Guerra fredda, una crisi che, in meno di un anno, portò alla liberazione del Kuwait e alla ricostruzione del suo governo. Questa operazione fu portata a compimento solo a costi economici ed umani modesti per la coalizione multinazionale senza precedenti messa insieme dal presidente G. H.W. Bush. Fino a quel momento gli Stati Uniti ricorsero spesso all’uso della forza militare per diversi scopi. Oggi gli Usa stanno lavorando per districarsi da un secondo conflitto che li vede coinvolti in Iraq, stanno cercando di trovare una via risolutiva in Afghanistan, e valutando l’eventuale uso della forza contro l’Iran.
A questo punto la domanda che viene naturale porsi è: cosa possiamo imparare dalla prima guerra irachena, guerra che è ampiamente considerata come un grande successo militare e diplomatico?
Da questa guerra traiamo un’importante lezione. Una cosa è modificare il comportamento di uno Stato al di fuori dei propri confini, ben altra cosa è cambiare quanto accade all’interno del territorio di un altro Paese.
 
La Guerra del Golfo del 1990–1991 fu intrapresa per respingere l’aggressione militare irachena, fu qualcosa del tutto confliggente con il rispetto della sovranità, che è la regola principale tra tutte quelle che governano le relazioni tra gli Stati nel mondo odierno.
Quando le forze militari irachene furono respinte fuori dal Kuwait, gli Usa non avanzarono su Baghdad per rimpiazzare il governo dell’Iraq, né rimasero in Kuwait per imporre lì la democrazia.
La guerra contro l’Afghanistan del 2001 e quella contro l’Iraq del 2003 furono nettamente diverse.
Entrambi gli interventi militari infatti furono intrapresi con lo scopo di rovesciare il governo in carica, ed entrambi riuscirono a raggiungere l’obiettivo. Io sostengo che l’enorme sforzo in Afghanistan sia da giustificare (per cacciare il dominio talebano che contribuì a realizzare gli attacchi dell’11 settembre) ma non altrettanto si può affermare per la cacciata di Saddam Hussein. A prescindere dalle posizioni personali su questo specifico punto, non si può contestare il fatto che sostituire un governo con qualcosa di stabile e durevole è un obiettivo diverso e molto più ambizioso rispetto a quello di modificarne semplicemente il comportamento (le azioni).
Un cambiamento di regime che abbia successo richiede un impegno militare a lungo termine, esperti civili addestrati per costruire una società moderna, risorse economiche e vigilanza. E in ogni caso non ci sarebbe comunque alcuna garanzia che il risultato finale giustificasse l’investimento.
Un’altra serie di insegnamenti che possiamo trarre dalle esperienze irachene fa emergere come i risultati ottenuti dalle sanzioni economiche siano limitati.
Le sole sanzioni, anche se sostenute dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e supportate dalla presenza militare, non bastarono a convincere Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait, il cui controllo non aveva prezzo per lui. Né tantomeno riuscirono a produrre un cambiamento nel governo di Baghdad. Anzi con il passare del tempo la loro forza sanzionatoria diminuì. La terza serie di precetti riguarda il supporto internazionale. La partecipazione di molti governi non solo distribuisce i costi di un’entrata in guerra, ma conferisce anche legittimità all’impresa stessa. Un supporto multilaterale può aiutare ad ottenere approvazione interna, o, per lo meno, tolleranza negli Stati Uniti e negli altri Paesi, inclusi quelli in cui hanno luogo le ostilità.
 
A questo punto, cosa insegnano queste lezioni sulle iniziative da intraprendere in Iraq, Afghanistan ed Iran?
Per quanto riguarda l’Iraq, il presidente Obama ha ribadito il suo impegno a concludere tutte le operazioni di guerra americane entro la fine di agosto e di ritirare tutti i contingenti militari entro la fine del prossimo anno. Ma a giudicare dall’incapacità dei politici iracheni nel formare un nuovo governo mesi dopo le elezioni nazionali, il loro fallimento nel fornire servizi essenziali, e soprattutto il continuo perpetrarsi di terribili violenze, la costruzione nazionale in Iraq sembra essere lontana dal compiersi. L’amministrazione Obama potrebbe voler riconsiderare il suo impegno a ritirarsi e, al suo posto, negoziare un nuovo accordo (che potrebbe consentire a 20mila truppe americane di restare in Iraq per gli anni a venire), se e quando un nuovo governo iracheno dovesse nascere. Per quanto riguarda l’Afghanistan la storia suggerisce che gli Usa dovrebbero pensarci due volte prima di insistere nello sforzo di ricostruire la società afgana o il suo governo. Gli Stati Uniti farebbero meglio a limitarsi ad una missione più strettamente antiterroristica, simile a quella portata avanti in Somalia, Yemen (e in qualche misura anche in Pakistan).
 
Nel caso dell’Iran, la prima guerra irachena ci insegna che le sanzioni economiche con molta probabilità non saranno sufficienti a persuadere la Guardia rivoluzionaria (che sempre più domina il Paese) ad accettare limitazioni verificabili al suo programma nucleare. Eventuali sanzioni potrebbero però convincere alcuni potenti gruppi di elettori, all’interno dell’Iraq, ossia gli ecclesiastici, gli uomini d’affari, i politici conservatori, a rivoltarsi contro il presidente Mahmoud Ahmadinejad e la base militare della sua Guardia rivoluzionaria.
Ma se così non fosse, verrà posta in primo piano la questione dell’uso o meno della forza militare per rallentare la corsa allo sviluppo di un’arma nucleare da parte dell’Iran.
Solo pochi governi, tutt’al più, sosterranno questa soluzione. Nessuno può prevedere o immaginare quali risultati, costi e conseguenze potrebbe avere un attacco chirurgico agli impianti nucleari in Iran. Ma il non agire, accettando a tutti gli effetti il potenziale nucleare iraniano, potrebbe portare in futuro a maggiori pericoli e maggiori costi.
Di conseguenza è in Iran, ancora di più che in Iraq o Afghanistan, che gli insegnamenti della Guerra del Golfo devono essere dibattuti e, in ultima analisi, applicati.
 
Project Syndacate. Traduzione di Francesca Capannolo
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