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Il ritmo contenuto della rivoluzione

La rinuncia di Mubarak è uno sviluppo significativo ma non decisivo nella politica egiziana. Segna la fine della prima fase della rivoluzione ma è soltanto la fine dell’inizio del futuro dell’Egitto. Gli egiziani hanno bisogno di tempo per costruire una società civile e aprire un sistema politico praticamente chiuso per decenni.
Un governo ibrido, che includa elementi militari e civili, che porti avanti una transizione senza impazienza, potrebbe essere la migliore soluzione
Le rivoluzioni non accadono per caso. Guardando all’Egitto, ci sono diverse cause: oltre trent’anni di monocrazia; l’intenzione di Hosni Mubarak di trasmettere la carica di presidente al figlio; la diffusione della corruzione, del clientelismo e del nepotismo; una riforma economica che non ha portato benefici per gran parte della popolazione, ma che non di meno spicca a contrasto con la quasi completa assenza di riforme in campo politico.
Il risultato netto è che molti egiziani si sono sentiti non solo alienati, ma umiliati. E l’umiliazione è un formidabile movente ad agire. L’Egitto era maturo per una rivoluzione; un cambiamento drammatico ci sarebbe stato prima o poi entro pochi anni, anche senza la scintilla della rivolta tunisina o in assenza dei social media.
Questi ultimi, certo, sono un fattore significativo, ma la loro importanza non deve essere esagerata. Non è certo la prima tecnologia sovversiva dell’ordine costituito, il quale è già stato sfidato in passato dalla carta stampata, il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione, le cassette. E come le tecnologie che li hanno preceduti, i social media non sono decisivi: i governi possono reprimerli, ma anche utilizzarli per animare i propri sostenitori.
 
Il tempo è decisivo in politica. La rinuncia di Mubarak ad un nuovo mandato avrebbe probabilmente evitato la crisi, se fosse stata annunciata a dicembre. Ma, al momento in cui è stata ufficializzata, la tensione nelle piazze era arrivata ad un punto da non poter essere più placata.
Il successo iniziale della rivoluzione dipende più dalla volontà e dalla coesione del regime che dalla forza dei suoi oppositori. Il collasso tunisino è stato rapido, perché il presidente non ha retto la tensione, e l’esercito era debole e indisponibile a sostenerlo. La classe dirigente e l’apparato militare egiziano stanno dimostrando ben più determinazione.
L’allontanamento di Mubarak è uno sviluppo significativo ma non decisivo. Certamente chiude una lunga era della politica egiziana. Segna anche la fine della prima fase della rivoluzione in quel Paese. Ma è solo la fine dell’inizio. Ciò che comincia ora è la battaglia per il futuro dell’Egitto. L’obiettivo deve essere quello di rallentare le lancette della politica. Gli egiziani hanno bisogno di tempo per costruire una società civile ed aprire un sistema politico che è stato praticamente chiuso per decenni. Un governo ibrido, di salute pubblica, che includa elementi militari e civili, potrebbe essere la migliore soluzione.
Rallentare le lancette non vuol dire fermarle, ad ogni modo. Una vera transizione politica deve muoversi in avanti, anche se a ritmo contenuto.
Elezioni anticipate andrebbero evitate, perché il rischio è che le forze politiche (come la Fratellanza musulmana) che hanno una più lunga storia organizzativa godano di un ingiusto vantaggio. La Fratellanza musulmana dovrebbe essere ammessa nel sistema politico, purché ne riconosca la legittimità, accettando Stato di diritto e costituzione.
 
La storia e la cultura politica dell’Egitto suggeriscono che l’attrattiva della Fratellanza sia limitata nella misura in cui gli egiziani riescono ad unirsi al di sopra delle principali differenze, mantenendo l’ordine e rilanciando la crescita economica.
La riforma costituzionale riveste un ruolo primario. L’Egitto ha bisogno di una costituzione con un’ampia base – il che vuol dire, un sistema di controlli e contrappesi che renda difficile alle minoranze (anche a quelle che richiamano il sostegno di vasti e diversi strati elettorali) di governare sulle maggioranze.
I movimenti rivoluzionari inevitabilmente si dividono per frazioni. Il loro unico obiettivo comune è il rovesciamento del regime esistente. Una volta che il risultato è ad un passo dall’essere raggiunto, elementi dell’opposizione cominciano a posizionarsi in vista della seconda fase della lotta e della nuova competizione per il potere. Già vediamo segni di questa fase in corso in Egitto, e ne vedremo ancora nei prossimi giorni e mesi.
Alcuni non lotteranno per meno di una completa democrazia; altri (probabilmente la maggioranza) guarderanno di più all’ordine pubblico, alla maggiore responsabilità dei funzionari, ad un certo grado di partecipazione politica e ai progressi in campo economico. Non è mai possibile venire incontro alle richieste di tutti coloro che sono insoddisfatti, e i regimi non dovrebbero nemmeno provarci.
 
L’Egitto si trova in enormi difficoltà economiche, esacerbate dai recenti eventi, che hanno allontanato i turisti, fermato gli investimenti e ridotto l’attività lavorativa. Le sfide poste da una popolazione in rapida crescita demografica, l’istruzione inadeguata, la scarsità di posti di lavoro, la corruzione, la burocrazia e la crescente competizione globale rappresentano le maggiori sfide al futuro del Paese.
Le potenze straniere hanno avuto ed avranno solo una limitata influenza sul corso degli eventi. Negli ultimi trent’anni, saltuarie richieste americane di attuare riforme politiche limitate sono state in gran parte eluse. Una volta scoppiata la crisi, con le piazze e le strade piene di manifestanti, i principali protagonisti sono diventati Mubarak stesso e soprattutto l’esercito. Nel prossimo futuro saranno ancora gli egiziani, in buona sostanza, a determinare la strada del cambiamento.
Se questo è il canovaccio, la comunità internazionale dovrebbe astenersi dall’interventismo eccessivo, specie in pubblico. Spetta agli egiziani scegliere da loro stessi quanta e che tipo di democrazia costruire. Gli osservatori esterni possono assistere – per esempio, elaborando idee sulla riforma costituzionale o sulle procedure elettorali – ma ciò dovrebbe avvenire dietro le quinte e in forma di proposte, non di richieste.
Gli sviluppi egiziani avranno effetti differenziati nell’area. Ogni Paese ne sarà colpito in modo diverso.
Le autentiche monarchie come la Giordania hanno una legittimità e una stabilità che manca ai leader delle pseudo-monarchie (Siria, Libia e Yemen), così come al regime iraniano.
Il cambiamento in Iraq è stato imposto dall’esterno con la guerra, mentre in Egitto è stato promosso dall’interno ed in larga misura è stato realizzato con il consenso più che con la forza. Ma è ancora troppo presto per dire se esso sarà di largo respiro e duraturo – di più, se sarà positivo – e perciò troppo presto per stabilirne la portata storica.
 
© Project Syndicate 2011. Traduzione di Marco Andrea Ciaccia
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