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Il trionfo della Chinese way

Le merci seguono rotte sempre più interconnesse, le tecnologie ne supportano l’efficienza e la sicurezza. Chi esporta in grandi quantità ha interesse che i mercati di approdo rimangano aperti; chi importa vuole farlo evitando intoppi. Tra il punto di partenza e il punto di approdo c’è però una geografia politica che muta a un ritmo frenetico, con una moltiplicazione di rischi che richiede ai grandi protagonisti dell’economia mondiale di intervenire con investimenti e un presidio strategico attivo.
È così da quando i grandi esploratori del XV e del XVI secolo aprirono nuove rotte verso le Indie orientali o occidentali. Anche allora le grandi compagnie commerciali e assicurative decidevano a tavolino le rotte dei mercantili, tenendo nel giusto conto il “fattore politico”, la presenza di corsari, il clima. Oggi le rotte si sono moltiplicate e gli attori pubblici e privati dispongono di un ventaglio molto più sofisticato di informazioni e di opzioni.
Il canale di Suez e quello di Panama hanno storicamente rappresentato due moltiplicatori di opportunità. La loro apertura ha determinato un accorciamento dei tempi di navigazione e un abbassamento dei costi. Il loro presidio, militare e politico, è da oltre un secolo una priorità strategica per le potenze di riferimento. Per Suez si sono combattute diverse guerre; rispetto a Panama, all’epoca della sua inaugurazione (1914), gli Stati Uniti avevano già chiarito la loro posizione, con la celebre Dottrina Monroe.
 
Oggi il numero dei choke point si è moltiplicato, anche perché sono aumentate le potenze commerciali che siedono al tavolo d’onore. Gli equilibri geopolitici, non a caso, vanno spostandosi in questo inizio di XXI secolo verso l’Asia e il Pacifico, grazie al peso crescente di due colossi come India e Cina. Quest’ultima, in particolare, ha tutto l’interesse a garantire che la rete globale dei commerci non conosca interferenze. Sia perché Pechino ha bisogno di inondare con le proprie merci un numero crescente di mercati; sia perché, per mantenere stabile la crescita del proprio Pil in doppia cifra, ha bisogno di importare petrolio e gas. Si calcola che il 40% dell’energia mondiale si indirizzerà, nel 2020, stabilmente verso l’Asia. E Pechino, soprattutto, ha iniziato ad assumere decisioni importanti per salvaguardare le linee di trasporto.
Sulla “Via della seta marittima” la Cina incontra tre punti strategici: il sistema stretto di Taiwan-stretto delle Molucche; lo stretto di Hormuz; il canale di Suez. Il primo rappresenta il collo di bottiglia più importante e pericoloso, caratterizzato da una densità di Paesi spesso ai ferri corti, minacce non-statali come la pirateria marittima, disastri naturali frequenti.
 
Dallo stretto di Hormuz passa già oggi la maggior parte del petrolio e del gas estratto in Arabia Saudita, in Iran e nei principali petro-emirati del Golfo. Il confronto politico-militare e una tensione ricorrente rispetto alle posizioni iraniane – ad esempio in materia di arricchimento dell’uranio – ne fanno oggetto di un dilemma: tutti hanno bisogno che lo stretto rimanga aperto, ma in caso di crisi militare Teheran potrebbe decidere di strozzare il rubinetto, per scatenare una ritorsione energetica su scala globale. Il canale di Suez è ad oggi l’alternativa migliore per l’esportazione di merci verso il Mediterraneo, almeno fino a quando lo scioglimento dei ghiacci non aprirà stabilmente le rotte nordiche. L’instabilità politica fa di Suez un sorvegliato speciale, anche per il proliferare di minacce asimmetriche, in particolare il numero di pirati nel Golfo di Aden, i cui attacchi costano all’industria marittima diverse decine di miliardi di dollari ogni anno tra ritardi e riscatti per i sequestri. Non a caso, con una decisione senza precedenti, la Cina ha deciso di inviare nelle acque al largo della Somalia due navi militari per scortare i cargo e respingere le incursioni corsare.
 
Per sintetizzare questo presidio, i militari cinesi usano un’espressione dolce: “Filo di perle”. Quel filo lega idealmente una serie di basi e punti d’appoggio che ha un capo in Cina e l’altro nel Golfo Persico. Un network per sostenere gli “interessi nazionali allargati”. Entro la prossima decade, la marina cinese conta di avere tre gruppi di battaglia, ognuno guidato da una portaerei. La Cina può costruire in un anno il doppio delle navi che si mettono a punto negli Usa. Mentre la Guardia costiera americana pensa di tagliare la sua flotta di 25 unità, e la Francia e il Regno Unito sono costretti a smantellare i loro gioielli navali, la Cina aumenta la propria flotta per il pattugliamento delle coste di 30 navi nell’arco di 5 anni. I Paesi dell’area, preoccupati di una possibile escalation, hanno ripreso ad armarsi: tra il 2000 e il 2009 Singapore, Indonesia e Malesia hanno incrementato le importazioni di armi rispettivamente del 146, 84 e 722%.
 
Il caso più interessante e recente rimane quello del canale di Panama. In quell’area, Pechino costruirà una ferrovia di collegamento tra le due coste della Colombia, dall’Atlantico al Pacifico, aprendosi una via lunga 220 km per il trasporto delle merci alternativa al canale. Dal terminale sul Pacifico le merci verranno poi dirottate verso le due Americhe. È il trionfo della Chinese way, della via cinese allo sviluppo che sembra soppiantare, in mercati solo apparentemente marginali – come America latina e Africa – il Washington consensus. Non a caso il presidente americano Obama ha chiesto al Congresso di accelerare il processo di ratifica dell’accordo di libero scambio con la Colombia, fermo in Parlamento da ormai quattro anni. E i lavori che il governo di Panama dovrebbe affidare ad un consorzio internazionale per allargare il canale e consentire il passaggio delle nuove mega-porta-container procedono a rilento. Il risultato è che l’interscambio tra Cina e Colombia, partito da appena 10 milioni di dollari nel 1980, ha raggiunto nel 2009 il valore record di 5 miliardi.
“Uccidere il nemico con il proprio pugnale”. È questa la filosofia strategica cinese. Che sui mari troverà in futuro la sua massima espressione geopolitica.


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