Stabile. Paradossalmente, il fenomeno Nimby (Not in my backyard), acronimo con il quale si indicano le contestazioni che nascono nelle comunità locali in merito alla realizzazione di opere infrastrutturali, è ormai tra i pochi eventi nel nostro Paese a poter essere descritto con questo aggettivo. I dati appena pubblicati della VI edizione dell’Osservatorio Nimby Forum, realizzato da Aris (Agenzia di Ricerche Informazione e Società), sono lì ancora una volta a ricordarcelo.
Gli impianti contestati in Italia oggi sono 320 e di questi più della metà, per l’esattezza 162, sono entrati a far parte della casistica Nimby Forum già nelle edizioni precedenti; alcuni sono presenti fin dalla prima analisi condotta nel 2004 dall’Osservatorio. Vale a dire che in Italia ci sono 36 impianti che sono fermi dov’erano già sei anni fa. Stabili, per ricorrere a un paradosso. Ma sarebbe più appropriato dire che si sono arenati, bloccati, tra problemi di carattere burocratico, politico, legislativo e in prima istanza di comunicazione e consenso. Che realizzare un progetto infrastrutturale sia cosa complessa è un fatto innegabile; è invece ingiustificato che ogni opera si trasformi in un estenuante tentativo di ricomporre un puzzle i cui pezzi non sembrano poter combaciare.
In una situazione come questa non ci sono né vincitori né vinti, perché non sono garantiti i diritti di nessuna delle parti coinvolte: né quelli delle comunità interessate al buon governo del territorio, né quelli delle imprese di poter operare e generare sviluppo e occupazione. In una situazione come questa, il Paese è immobile.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Ragioni e responsabilità sono altrettanto evidenti. La politica pare avere rinunciato al suo mandato fondamentale, quello di essere sintesi e rielaborazione concreta delle reali esigenze collettive, locali e nazionali. L’interesse comune non lo si definisce in astratto, non lo si calcola sulla durata del mandato, bensì si cerca di individuarlo attraverso una lettura chiara della realtà, delle potenzialità e delle esigenze. Con senso di responsabilità.
Se analizziamo un po’ più da vicino i dati di quest’anno, risalta la netta prevalenza degli impianti del comparto elettrico (186 impianti, il 58,1% del totale), mentre scendono parallelamente le contestazioni legate agli impianti del settore rifiuti (32,5%), nonostante l’attenzione mediatica riservata al caso Campania, e quelle relative alle infrastrutture viarie. Ciò che in qualche modo sorprende è che all’interno del settore energia siano proprio gli impianti per la produzione di energia da rinnovabili – biomassa, eolico, fotovoltaico – a prevalere sulle fonti convenzionali. Si tratta di uno scarto notevole: 133 impianti contro i 21 delle fonti convenzionali. Certo, il dato va letto tenendo presenti i tratti salienti della produzione rinnovabile, caratterizzata da una molteplicità di impianti, di piccole dimensioni, distribuiti in maniera diffusa sul territorio. Ma anche tenendo nella dovuta considerazione questo elemento, il dato resta significativo ed esemplificativo del fenomeno Nimby nel nostro Paese. Da un punto di vista generale, infatti, le fonti rinnovabili godono di un tasso di accettabilità sociale molto alto; la sensibilità ambientale degli italiani, così come viene registrata dai numerosi sondaggi che indagano questo tema, sembra essere elevata, eppure nel momento in cui questa deve tradursi nella disponibilità ad accettare la realizzazione di un impianto nel proprio territorio, cominciano a prendere piede forme di resistenza.
Perché questo è possibile? Che cosa succede esattamente? Che cosa impedisce che la disponibilità di principio si traduca in una disponibilità concreta, in un sì, insomma, all’impianto? Quello che manca è evidentemente un percorso serio, lineare, trasparente di confronto, di informazione e di coinvolgimento della popolazione. Le proteste che nascono nei territori che ospitano nuove infrastrutture devono essere interpretate per quello che sono: una manifestazione di esplicita insofferenza verso un sistema che dimostra a ogni occasione di non funzionare. Sono uno strumento per reclamare attenzione cui i cittadini ricorrono in mancanza di momenti reali e normati di ascolto e di interlocuzione trasparente. I dati europei testimoniano quanto sia necessario coinvolgere le popolazioni nei progetti di infrastrutturazione fin dalle fasi embrionali dei processi autorizzativi. Il dialogo, la trasparenza, l’impegno collettivo pagano: i tempi si accorciano e i progetti vanno avanti. Non si tratta di passare da un modello rappresentativo a una democrazia da referendum permanente. Non stiamo dicendo cioè che chi ha ottenuto il mandato di governo del territorio debba delegarlo, rimetterlo direttamente nelle mani dei cittadini; al contrario deve riappropriarsi del proprio ruolo primario, riconducendo i momenti di consultazione e partecipazione a scelte concrete. Con una visione di lungo periodo, oltre il proprio mandato elettorale e oltre gli interessi di parte.
Una buona notizia. Cominciano a radicarsi nel nostro Paese esperienze significative e positive: Toscana ed Emilia Romagna si sono dotate di specifiche leggi regionali che puntano a stimolare la partecipazione e a trasformare l’energia della protesta in energia propositiva. Il progetto Tav e la Gronda dell’autostrada di Genova sono tra i primi casi in cui processi di questo tipo sono direttamente applicati alla realizzazione di infrastrutture. Occorre oggi mettere a frutto queste esperienze e sistematizzarle in una proposta nazionale. A nostro avviso, è uno dei passaggi fondamentali per recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, nella politica, nel futuro.