Sin da quando Bin Laden balzò drammaticamente agli onori della cronaca, scomparendo poi in latitanza, abbiamo assistito alla sua trasformazione in icona pop.
La scarsità di immagini del terrorista ha fatto sì che le rare foto e i video diffusi rivestissero subito un’aura mitica. Mai come in questo caso, nel campo dei media, siamo di fronte a una figura disincarnata e priva di referente. Bin Laden era un fantasma dell’immaginario occidentale, ancor più di quello islamico ed è per questo che la notizia della sua morte, al di là delle paranoie complottiste e delle perplessità giuridico-morali che solleva, è uno shock iconografico.
Il fantasma che nei video parodici era paragonato a Voldemort o a Darth Fener è tornato a essere corpo. Già solo per questo, anche in assenza di foto, la morte del terrorista non è del tutto liberatoria. Bin Laden ha costruito una narrazione in cui lui stesso era l’erede postmoderno di un arcaico califfato esistente solo nella sua mitologia panislamica. A loro volta, sulla sua figura, si sono innestate le speculazioni simboliche dell’immaginario collettivo americano. La figura dello sceicco terrorista è inseparabile da quella dei suoi mortali nemici, Bush e Obama: uno portatore dei valori di un’America primigenia e mitica e l’altro alfiere della tradizione di continua innovazione del sogno americano, rappresentante a un tempo della rottura radicale e della continuità dell’American way of life.
Proprio perché Bush e Obama rappresentano due polarità irriducibili per la comunicazione politica, molti si sono sorpresi (e alcuni anche offesi) per il tono e le parole scelte da Obama nell’annunciare al suo Paese l’avvenuta vendetta dell’11 settembre. Un presidente di solito colloquiale e informale ha usato in questo caso un tono solenne, da capo spirituale. Affermando «Giustizia è fatta» ha assunto una paradossale continuità con lo stile mediatico del suo predecessore, a cominciare da quel «Missione compiuta» con cui Bush chiuse la prima fase del conflitto in Iraq.
In realtà le parole di Obama sono un segnale preciso di quanto forti siano le impostazioni narrative nella prassi politica e in particolare nel continuum della comunicazione. Obama ha affrontato due fantasmi: da un lato l’auto-rappresentazione di Bin Laden che si proponeva come elemento messianico per l’Islam, e il suo rappresentare il male assoluto per l’occidente, quasi un Hitler redivivo. Dall’altro la rappresentazione del conflitto interminabile fra democrazia e terrorismo fatta da Bush sull’onda di un opposto impulso messianico.
La guerra contro il terrorismo ha perso ben presto ai nostri occhi il suo carattere “politico”, nel senso pratico-scientifico da dare al termine, per assumere i caratteri di scontro antropologico o di contrapposizione tra diverse istanze metafisiche, di cui le icone pop sono l’indice più eloquente. Assuntosi la responsabilità di distruggere l’immagine del Male, la sua incarnazione, Obama ha soprattutto dimostrato che non si può uscire facilmente dal circuito di un sistema rappresentativo che ha avuto lunghi anni di tempo per sedimentare.
Indice delle cose notevoli
Un’analisi della nuova strategia di comunicazione di Obama: Guido Molteni – Marilisa Palumbo, Barack Obama. La rockstar della politica americana, Torino, Utet, 2008 * Il discorso di Obama sulla morte di Bin Laden diffuso sul canale Youtube della Casa Bianca;
Un’interessante inchiesta che ricostruisce il background del terrorista più ricercato del mondo: Steve Coll, Il Clan Bin Laden. Una famiglia alla conquista dei due mondi, Milano, Rizzoli, 2008;
Il discorso originale di Bush alla fine delle operazioni di invasione dell’Iraq;
Una riflessione su terrorismo e autorappresentazione: Christian Uva, Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle Br ad Al Qaeda, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008.