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A tutto gas

Il caos libico non è, per l’Italia, una passeggiata. Da Tripoli ci arrivano, tradizionalmente, circa un quarto delle nostre importazioni di petrolio e oltre un decimo di quelle di gas. La chiusura di questi canali non ha avuto, nell’immediato, conseguenze visibili, ma nel medio termine potrebbe sortire conseguenze spiacevoli. Non tanto in termini di sicurezza degli approvvigionamenti: il petrolio si scambia sui mercati globali e non ha rigidità di sorta (Morris Adelman diceva che il mercato petrolifero è come “un unico grande stagno”). Quanto al gas, che invece le rigidità infrastrutturali le conosce eccome, la questione è più complessa, ma – dati i livelli di domanda relativamente bassi a causa della crisi e dato l’ingresso in funzione del rigassificatore di Rovigo – è ragionevole aspettarsi che i volumi richiesti comunque affluiranno per altre vie. Ciò non significa, però, che la guerra in Libia sia priva di conseguenze, che potrebbero essere tanto più pesanti, quanto più i disordini si protrarranno nel tempo.
 
Distinguiamo i due problemi. Per quel che riguarda il petrolio, l’Italia, nel caso di una prolungata assenza dei rifornimenti libici, dovrà pagare un doppio prezzo. Uno è condiviso col resto del mondo: poco o tanto, l’incertezza riguardo l’esito del conflitto contribuisce a tenere i prezzi al di sopra dei livelli “normali”, perché il mercato sconta il rischio non solo (e forse non tanto) dell’incancrenirsi della crisi libica, quanto delle potenziali instabilità trasmesse dalla “primavera araba” anche nei Paesi che tradizionalmente hanno garantito l’approvvigionamento mondiale (cioè, principalmente, l’Arabia Saudita). Poi c’è un costo specifico: data l’antica consuetudine con Tripoli, diverse raffinerie italiane sono “tarate” sulle caratteristiche del greggio libico, che è della qualità migliore. La sua sostituzione con altri greggi può determinare una resa inferiore, col risultato che, a parità di volumi lavorati, si ottengono meno benzine e gasoli, col conseguente ribaltamento di costi sui consumatori.
 
La situazione del metano, invece, è più intricata. Tra l’Italia e la Libia corre il gasdotto Greenstream, che va da Mellitah in Libia a Gela in Sicilia. Greenstream ha una capacità di trasporto pari a circa 11 miliardi di metri cubi di gas all’anno, della quale nell’anno termico 2009-2010 era stata conferito l’83,4%.
Nel 2009, cioè, a Gela è entrata una quantità di gas pari al 13,2% della domanda nazionale, ossia, in valore assoluto, 9,2 miliardi di metri cubi. Greenstream è stato chiuso in seguito ai fatti di Tripoli. Questo al momento non ci preoccupa, vuoi perché l’economia va come va, vuoi perché le temperature sono miti e, quindi, la domanda di metano per riscaldamento è bassa. Supponiamo, però, che Greenstream resti chiuso per un periodo di tempo sufficientemente lungo: saremo in grado di rifornirci del gas che ci serve?
 
I conti sono presto fatti: la capacità conferibile su tutte le altre infrastrutture è pari a 108,5 miliardi di metri cubi (molto teorici), di cui 96 sui gasdotti esistenti, e 12 nei due rigassificatori di Panigaglia e Rovigo. Sulla carta, ci siamo. Nella pratica, il livello di saturazione dei tubi nel 2009 – in particolare per le tre pipeline maggiori, Tag dalla Russia, Ttpc dall’Algeria, e Tenp dal Nordeuropa – era sempre superiore al 90%, e quindi senza grande capacità di manovra. Oltre tutto, nei mesi scorsi una serie di guasti al gasdotto Transitgas (che sta a monte di Tenp e lo rifornisce) ne hanno causato prima la momentanea interruzione e poi il funzionamento solo parziale, riducendo di fatto la disponibilità teorica. In sostanza, quindi, la nostra polizza di assicurazione contro Gheddafi ha nome e cognome: Edison-ExxonMobil-Qatar Petroleum che, mettendo in campo gli 8 miliardi di metri cubi di capacità del rigassificatore di Rovigo, hanno fornito capacità aggiuntiva sufficiente a offsettare quasi completamente la Libia.
 
L’analisi dei numeri, dunque, induce un moderato senso di tranquillità ma, a differenza che nel petrolio, la tranquillità è legata essenzialmente alle prospettive non proprio eccitanti di crescita economica. Se la domanda dovesse tornare ai livelli pre-crisi, o se la produzione nazionale dovesse scendere più rapidamente del previsto, potremmo avere qualche problema. Si tratta, comunque, di un’eventualità remota.
Quello che sta accadendo, però, dimostra quanto sia importante aumentare la capacità di importazione nel Paese, specialmente di Gnl che, per sua natura, è più flessibile. Inoltre, paradossalmente, la chiusura di Greenstream non rappresenta per Eni (titolare del gasdotto e della maggior parte della capacità di trasporto) soltanto un costo, ma nasconde anche un elemento di beneficio: la crisi ha messo il gruppo di San Donato in difficoltà di fronte all’obbligo di onorare tutti i contratti take or pay che impongono (banalizzando) di pagare anche per i volumi di gas non ritirati. Questo ha causato una (momentanea) “bolla” del gas che ha depresso i prezzi spot. Il venir meno degli 11 miliardi di metri cubi libici risolve il problema. Ma non fa bene ai consumatori, che vedono “accorciarsi” un mercato altrimenti lungo e, quindi, subiscono una tensione sui prezzi “non necessaria”.
 
Altra e distinta questione è, poi, il problema della principale azienda italiana attiva in Libia, cioè l’Eni. Al di là del danno derivante dallo stop allo sfruttamento dei giacimenti a conflitto in corso, vi è grande incertezza riguardo l’esito del tutto. Il gruppo potrebbe subire dei costi rilevanti. Tuttavia, non bisogna commettere l’errore di confondere i problemi di un’impresa con quelli del Paese. C’è un margine di confusione dovuto alla partecipazione pubblica al capitale di Eni, ma questo, semmai, aggiunge frecce nella faretra di quanti ne invocano una privatizzazione.
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