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Giovanni Goria, l’attualità di un esempio

Si può dire che Gianni Goria, seppur inconsapevolmente, abbia rappresentato il passaggio tra la fine di tre cicli e l’inizio di una nuova stagione politica, caratterizzata da contingenze, difficoltà del momento e libertà pragmatica della politica. Uno dei cicli che si conclude, negli anni ‘70-‘80, è il ciclo “risorgimentale”, cioè quello dell’élite che aveva fatto l’Italia.
Come diceva De Meis, uno dei padri del Risorgimento, gli italiani si dividono in due: c’è un popolo che lavora, e un popolo che pensa il sentimento del primo e ne è il legittimo sovrano. I padri risorgimentali hanno avuto la forza che hanno avuto perché pensavano. Il “primo popolo” andava sulle colline dell’Isonzo o in Africa orientale, ma era il “secondo popolo”, laico, risorgimentale, giolittiano, e anche fascista, che ha fatto l’Italia.
 
Tuttavia, dal ‘45 in poi, milioni di persone si sono impegnate nella piccola impresa, hanno fatto economia sommersa, lavoro autonomo, mobilità verticale nelle aziende e si sono trasformate in popolo sovrano. Negli anni ‘70-‘80 a prevalere fu dunque il “primo popolo”, mentre il secondo diventò marginale.
Goria ha vissuto gli ultimi istanti di quel “secondo popolo”, si può anche dire che ne sia stato parte: era vicino a De Mita e ad Andreatta, ma ha visto crescere, nell’astigiano e nel nord-ovest dal quale proveniva, il “primo popolo”, il lavoro dipendente, la classe operaia.
Questo cambiamento ha lasciato tutti orfani. La nostra generazione – la mia e anche quella di Gianni – ha vissuto la fine di quel ciclo, ma non è stata in grado di trasformarsi nel “secondo popolo” che pensava per gli altri, perché la politica italiana ha spezzato il ciclo di formazione della classe dirigente cominciato 130 anni prima.
 
Un altro ciclo conclusosi in quell’epoca è quello del potere dello Stato e della responsabilità dello Stato nel sistema.
Intorno a Sergio Paronetto, vice direttore dell’Iri, si era creata una cultura di classe dirigente tutta statalista, in cui non erano più le élites il soggetto dello sviluppo, ma lo Stato; non era più la classe dirigente élitaria che pensava di costruire il futuro, l’impero, l’Unità d’Italia, ma lo Stato.
Saraceno, Paronetto e Menichella erano considerati “cattocomunisti”, ma in realtà partivano dalla concezione che lo sviluppo fosse governato dallo Stato. Dopo aver concepito, negli anni ‘30, la legge bancaria, l’Iri e l’Inps, una volta affacciatisi alla realtà del Dopoguerra, continuarono a creare enti, fino ai limiti estremi, non sostenibili, del parastato.
Goria diventò presidente del Consiglio quando questa idea era già tramontata.
Lo sviluppo non era più frutto di una dimensione statuale: era arrivata l’era del mercato, del libero gioco dei comportamenti all’interno della dinamica sociale. In una società che non era più fatta solo da élites, ma da milioni di persone, i comportamenti non potevano essere più regolati da un singolo soggetto – lo Stato.
Finisce anche il ciclo saraceniano della programmazione. Senza élites, senza piani e senza riforme veniva a mancare uno Stato che dettasse un indirizzo, che creasse un ente per ogni argomento, che pianificasse.
Governare senza piani, senza leggi e senza élite non era facile: molti degli uomini usciti di scena negli anni ‘90, non ne sono usciti solo per via di Tangentopoli, ma perché appartenevano ad un passato di programmazione e statalismo, ad un passato élitario e di riforme.
Come si poteva governare senza pensare che la riforma fosse importante, necessaria e fattibile? Come si poteva governare senza quella squadra di persone che avevano un comune sentire?
 
Si dice che Goria abbia avuto la sfortuna di dover affrontare troppe contingenze senza poter fare grandi programmi. Qualcuno dice che sia stato sfortunato perché gli capitarono contemporaneamente lo smottamento in Valtellina, la caduta dell’aereo a Zurigo e l’atteggiamento di Scalfaro. Allora Goria comprese che non poteva più governare, ma la colpa non era sua, ma dei cicli precedenti, perché quei metodi di governo non funzionavano più.
La contingenza è un elemento importante anche adesso. Chi riuscirebbe oggi a dire come fare a controllare le contingenze? Quali sono i problemi che abbiamo di fronte e come li governiamo? Quello che facciamo è governare punto per punto, come nel caso delle rivoluzioni del Nordafrica. Oppure delegando alla Nato o all’autorità militare una contingenza per volta. In secondo luogo, la contingenza “Nordafrica” ha creato una contingenza “immigrazione”, che non è relativa solo a Lampedusa, ma che è ormai un fenomeno ciclico.
Quando la contingenza si impone, la politica diventa qualcosa di meno nobile: non ci sono grandi obiettivi, né grandi piani; non c’è il soggetto generale dello sviluppo, né la riforma.
 
Questo passaggio, che Goria ha vissuto sulla sua pelle, ha inaugurato un nuovo ciclo in cui la dimensione che piace meno a noi italiani illuministi, programmatori, progettatori e riformatori è l’empiria quotidiana. D’altra parte le due maggiori potenze del mondo, la Cina e gli Stati Uniti, hanno entrambe il primato dell’empiria, che è ciò che le rende potenti.
Da quel momento, sul finire degli anni ‘80, in modo occulto, sommerso e silenzioso, si è fatto il punto e a capo. Da quel momento non si poteva più governare come si era governato per 120 anni.
La domanda che ci possiamo porre è: che cosa ha da offrire questa politica? A mio avviso vi sono alcune contrapposizioni fondamentali.
La prima è che la politica di una volta, delle élites, del piano, dello sviluppo, “aveva mondo”: mondo da conquistare, da immaginare.
La politica di oggi può soltanto governare lo “stare al mondo”, non ha la grinta, la forza, l’illusione, la speranza, la voglia di conquista per “avere mondo”.
 
Molti dicono che il nostro mondo è pagano, ma è così non perché abbiamo dei consumi di lusso, o regole troppo facili, ma perché i pagani “stanno al mondo”.
I pagani stavano nel cosmo, non dovevano conquistare nulla, mentre erano i giudeo-cristiani ad “avere mondo”.
La perdita di valori della cultura giudaico-cristiana di questi ultimi decenni non è dovuta alla secolarizzazione, al fatto di non andare in chiesa, ma al fatto che le persone “stanno al mondo” e sono interessate soltanto a questo.
La seconda contrapposizione è che la politica che vuole “stare al mondo” è intensiva. Oggi il valore fondamentale è la relazione, tipica di chi vuole “essere al mondo”, mentre la vera virtù del politico è l’intenzionalità, che è la politica di chi ha a cuore “avere mondo”.
 
Terzo elemento: la politica non è più formazione di significati e di senso, ma è una politica della funzionalità.
Nella politica di oggi vi è una sovrabbondanza di fattori che sono le prestazioni. Se la politica deve badare allo “stare al mondo” e alla relazione, la vera misura diventa la funzionalità. Il problema è che si viene a creare la serialità, perché misurare tutto in base alla prestazione rende tutti uguali.
La capacità che i vecchi politici avevano di dare senso, oggi è stata sostituita dalla logica delle prestazioni. Quello che conta è la misurazione del consenso e se il sondaggio va male conviene cambiare i contenuti del proprio modo d’essere e cambiare politica.
È impensabile che Gianni Goria cambiasse a seconda dei sondaggi, però era legato alla concezione moderna della politica come prestazione, perché sapeva “stare al mondo”, accettava di “stare al mondo”. Non aveva grandi intenzionalità, ma era capace di relazionarsi con tutti; non aveva grande formazione di significati, ma aveva il valore di fare le cose bene; non aveva il desiderio di un “altrove”, ma aveva la coscienza della sua finitezza. Il modo stesso in cui Gianni se n’è andato è legato all’idea della finitezza e della modulazione di se stessi.
 
La modulazione di se stesso conduce ad essere un uomo che accetta la finitezza, ad essere un politico che sa che la politica è finitezza, che sa che la finitezza è essenziale per accettare di essere solo funzionale e non grande ispiratore di popoli.
Finitezza, funzionalità, relazione, “stare al mondo” non sono dei sottovalori da rigettare, ma sono dei valori politici. Goria aveva la consapevolezza del loro significato profondo.
Giostrare la contingenza e giostrarsi con le contingenze non è un puro giochetto politico, ma è qualcosa che ha bisogno di un’arte politica molto più grande di quella insegnata dai padri che avevano cultura d’élite, senso della storia, dello Stato e del potere statuale, della programmazione e della pianificazione dello sviluppo.
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