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I rischi per la nostra sicurezza

Un Paese dotato di risorse naturali ha bisogno di venderle; che si tratti di una democrazia, di una teocrazia o di una dittatura non fa differenza perché quando il petrolio c’è, non è pensabile non venderlo: il costo sarebbe semplicemente troppo alto. È vendendo queste risorse che il regime, quale che sia, si garantisce il consenso della popolazione; certo il petrolio o il gas sono spesso un frutto avvelenato, perché la cattiva gestione delle ricchezze prodotte causa rivoluzioni, ma non si tratta di una maledizione ineluttabile.
Il regime politico, insomma, è una variabile senz’altro complessa, ma gestibile. È una legge della realpolitik, che la storia conferma: sono solo due di fatto nell’epoca contemporanea, nutrita di petrolio, gli embarghi posti in essere da parte dei Paesi fornitori, tutti gli altri sono stati imposti dai Paesi compratori. E non è un caso, perché, salvo eccezioni, i Paesi compratori dispongono di una forza economica data dalla loro domanda e relativa solvibilità e di una forza militare non comune (se tra questi figurano gli Usa).
 
I realisti più realisti del re sono lesti a obiettare che la stabilità è un bene importante che va difeso sino all’ultimo. Tradotta, fuori dalle pelosamente pudiche formulazioni ufficiali, la parola “stabilità” significa “vogliamo tenerci un governo attento ai nostri desideri, non importa cosa questo significhi per i sudditi di quel Paese”. Chiarito questo, come funziona davvero la stabilità? Pensiamo, per esempio, che gli anglo-americani hanno fatto un colpo di Stato per eliminare una democrazia nascente in Iran, quella del primo ministro Mossadegh; di per sé non avevano nulla contro il nuovo regime, ma bisognava scongiurare una nazionalizzazione del petrolio che suonava come un affronto intollerabile, e metteva a rischio grassi proventi.
E così fu restaurato il potere dello Shah al banale prezzo di perderlo nel giro di 25 anni a favore di un predicatore sciita rivoluzionario (Khomeini) prima e di un astuto ex-pasdaran oggi (Mahmoud Ahmadinejad): un baratto poco interessante tra 25 anni di bonanza rapinatoria e 31 anni di petrolio nazionalizzato, a prezzi crescenti, un Paese embargato e una serie di pesanti problemi politici.
Ma ci sono esempi contrari: non dimentichiamoci che il Venezuela di Chavez, “il cattivo e populista”, le petroliere ai texani le manda puntualmente. Insomma, che sia meglio un dittatore che conosciamo, piuttosto di una democrazia o di un regime più liberale che non conosciamo, è un pregiudizio che non poggia su basi razionali e non ha evidenze significative nella storia. Se domani ci fossero i talebani a Tripoli ci venderebbero comunque gas e petrolio.
 
Il cambiamento non deve fare paura a priori, ma la crisi va gestita. Quello che sta attraversando il Nord Africa e il Medio Oriente è un movimento che non si è ancora assestato, potrebbe raggiungere l’Algeria, innanzitutto, così come l’Oman, mentre ha già raggiunto ampiamente lo Yemen e sta sobbollendo in Siria. Starei attento anche ad escludere che possa arrivare a toccare direttamente l’Arabia Saudita. Certo, se analizziamo alcuni parametri sociali ed economici – livello di alfabetizzazione, ruolo della donna e incidenza dei matrimoni endogamici – la situazione dell’Arabia Saudita non è certo assimilabile a quella di Paesi come la Libia o il Marocco; eppure non c’è dubbio che una parte della popolazione sciita si è stufata di essere considerata di serie B o C. L’esempio del Bahrein è molto contagioso: proprio per questo i sauditi sono intervenuti a Manama, costringendo il resto del Consiglio di cooperazione del Golfo a fare altrettanto.
 
C’è un’altra variante del mantra della stabilità ed è quella legato alla nostra capacità di gestire le crisi. Per vent’anni in Europa ci siamo baloccati bizantinamente con i nostri amici americani con il capacity building: un mare di chiacchiere ed inchiostro che hanno partorito strumentini che nessuno realmente impiega. Perché? L’Europa non ce la fa a nascere politicamente: gli Stati nazionali sono troppo deboli e non possono devolvere sovranità verso l’alto. L’Europa, intesa come concerto delle potenze europee, è finita con la Prima guerra mondiale. Non è nemmeno un problema di mezzi, quelli ci sono e si possono rinforzare, è un problema di visioni politiche strategiche. Davanti al reale problema della sicurezza energetica, fare un cartello di consumatori potrebbe essere un’opzione interessante. Per esempio, una politica energetica europea forte sarebbe decisiva per negoziare vantaggiosamente con i fornitori, tra cui la Russia, e riuscire a tenere testa a un gigante dei consumi energetici come la Cina, che potrebbe monopolizzare alcuni accessi e la disponibilità di alcuni Paesi. In assenza di una politica europea, non solo energetica, ma complessiva, è possibile che i flussi dell’energia si orientino diversamente, la preferenza andrà a mercati di consumatori politicamente più promettenti.
 
Sino a quando ci sarà un mercato mondiale dell’energia, non resteremo a secco, ma quel che invece può cambiare sono le condizioni a cui il petrolio sarà venduto; quelle sì dipendono dalle amicizie, dalle relazioni, dalla “simpatia” reciproca che determina tipo di contratti, prezzi, termini di pagamento. Può costarci di più il petrolio, questo è chiaro. Per questo dobbiamo saper controllare altre variabili, come il risparmio energetico su cui si sta facendo pochissimo, e dobbiamo affrontare chiaramente il problema delle alternative e della bancabilità dei progetti.
Se andiamo alla radice del problema, il nodo da affrontare è il picco dei debiti: garantirsi un’alternativa al petrolio e al gas libico economicamente più vantaggiosa vuol dire investire altrove. Sappiamo bene che la grande alternativa di sicurezza, se la situazione in Nord Africa si facesse più seria, sta nelle riserve di gas russo. La domanda da porsi allora è: siamo in grado di finanziare il rinnovamento dell’infrastruttura energetica russa che è necessario? E poiché gli unici che hanno davvero liquidità, oggi, sono i cinesi, dobbiamo chiederci: la nostra sicurezza energetica può arrivare a dipendere dai fondi sovrani cinesi?
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