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Poca spesa, poca resa

È indubbio che in questo periodo di crisi, il nostro debito pubblico sia andato meglio che negli altri Paesi: relativamente al Pil, è cresciuto “solo” del 12% dal 2006 al 2010, la metà rispetto alla media dei 17 Paesi dell’area Euro (Ea-17). Minima spesa pubblica aggiuntiva per i pochi interventi straordinari, rispetto ai salvataggi nel settore bancario – ispirati al too big to fail – da parte dei nostri partner.
Piuttosto che stimoli fiscali in deficit, dall’esito incerto, il nostro governo ha lavorato prioritariamente ad un aggiustamento della spesa pubblica. Questo ha permesso di mantenere invidiabili saldi primari di bilancio, quelli che non considerano il pagamento degli interessi, migliori di quelli dei nostri principali partner europei.
 
Un virtuosismo della finanza pubblica made in Italy soprattutto se si considera il denominatore. Sempre nel periodo 2006/10 l’andamento annuale Pil, in termini reali, è stato negativo (-0,34%) rispetto al +0,78% dell’Ea-17. Certo, se il nostro Paese avesse fatto più spesa pubblica, peggiorando quindi il saldo primario, avremmo avuto un Pil più brillante e in linea con quello dell’eurozona. Rimane il fatto che l’Italia, fondatore di peso dell’Ue e dell’eurozona, è sempre un passo indietro, tanto nelle fasi di crescita quanto nelle fasi di crisi. Un ritardo che può essere sintetizzato in un dato: la produttività. Fatta 100 la media Ue-27 di quanta ricchezza viene prodotta in un’ora di lavoro, la media Ea-17 nel quinquennio considerato è stata, secondo Eurostat, di 114 e per il nostro Paese un preoccupante 102,6.
 
Il dato, seppur legato ad un periodo ben definito, è il risultato di problemi strutturali ovvero di quelli le cui cause vanno oltre il tempo fisiologico di un ciclo di governo. I lettori saranno ormai stanchi di leggerli (ma chissà repetita iuvant?): scarsa concorrenza in alcuni, rilevanti, servizi; burocrazia onerosa e finanza banco-centrica soprattutto in un sistema di pmi; infrastrutturazione inefficace e comunque costosa da realizzare; capitale umano con potenzialità di eccellenza, ma ad elevata mobilità geografica (con conseguenze negative sui divari nord-sud e sulla fuga dei cervelli all’estero); mercato del lavoro dicotomico (sicuro ma oneroso, competitivo ma precario).
L’elevato livello di precariato e la crescente durata dello stesso nella vita lavorativa potrebbe essere, come sottolineato recentemente anche da Mario Draghi, uno dei fattori tali da aver allargato ulteriormente il differenziale di produttività. Se infatti la maggiore flessibilità ha il merito di aver reso più fluido un mercato del lavoro prima incapace di adeguarsi con velocità alle mutande condizioni economiche globali, dall’altro le scarse prospettive di stabilizzazione potrebbero aver inciso non solo sulla motivazione, ma anche sulla riduzione degli investimenti a lungo termine, con effetti negativi sulla preparazione – quindi la produttività – dei lavoratori.
Niente di nuovo sotto il sole quindi. Anche l’Ue non fa altro che ripeterci le stesse cose per le quali non sono più necessari fini economisti, ma una classe dirigente che prenda decisioni, spesso non eccessivamente onerose per il bilancio pubblico, con buon senso e coraggio.


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