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Alla ricerca della ricerca

Se da un lato l’agenda dei capi di Stato e di governo (e dei ministri economici) si infittisce per trovare, e soprattutto implementare, soluzioni per tamponare la crisi, rimane sullo sfondo il tema della competitività. Una delle sette “iniziative faro” della strategia Europa 2020 è “L’Unione dell’innovazione”; con una comunicazione che ha compiuto da poco un anno (6 ottobre 2010) la Commissione ha delineato le modalità per affrontare l’emergenza dell’innovazione. Nel frattempo, la stessa Commissione pubblica il report 2011 sulla competitività dell’Unione dell’innovazione e la strada sembra essere tutta in salita. In un’economia globalizzata, il vantaggio competitivo europeo risiede principalmente nella sua capacità di competere con prodotti ad elevato valore aggiunto. Tuttavia, la partecipazione dell’Europa alla capacità di ricerca mondiale (in termini di investimenti e di ricercatori) e ai risultati (in termini di pubblicazioni scientifiche, tecnologiche e di brevetti) sta diminuendo, sullo sfondo dell’emergere del resto del mondo e in particolare delle principali economie asiatiche.
 
Fra il 1995 e il 2008, il totale di investimenti nella ricerca in termini reali è aumentato del 50% nell’Ue. Tuttavia, gli aumenti registrati nel resto del mondo sono stati più significativi: 60% negli Stati Uniti, 75% in quattro Paesi asiatici (Giappone, Corea del Sud, Singapore e Taiwan), e 85% in Cina! La debolezza dell’investimento europeo in ricerca e sviluppo è particolarmente visibile nel settore privato: relativamente al Pil, le imprese investono due volte di più in Giappone e in Corea del Sud che in Europa. Dalle risorse finanziarie a quelle umane, sebbene la Cina sia leader mondiale con 1,6 milioni di ricercatori, l’Ue si difende con i suoi 1,5 milioni contro l’1,4 milioni negli Stati Uniti e 710mila in Giappone. Tuttavia nell’Ue, una quota significativa dell’attuale personale di ricerca raggiungerà l’età della pensione entro il 2020 e inoltre il 54% dei ricercatori appartiene al settore pubblico. Caratteristica tutta europea, se si considera la quota di ricercatori al servizio del settore privato nei nostri principali concorrenti: 69% in Cina, 73% in Giappone e 80% negli Stati Uniti. Con 111mila nuovi dottorati conferiti ogni anno, l’Ue produce quasi il doppio dei dottorati rilasciati negli Stati Uniti e lo scarto è ancor più grande per i dottorati in scienze e in ingegneria, il cui numero nell’Ue è superiore al doppio dei dottorati rilasciati negli Stati Uniti. Ma in rapporto al Pil l’investimento degli Stati Uniti nell’insegnamento universitario è circa due volte e mezzo quello dell’Ue, soprattutto per via della spesa del settore privato notevolmente inferiore. Ne deriva che la spesa in istruzione per ogni studente post-laurea o di dottorato in Europa rappresenta appena una piccola parte della spesa equivalente negli Stati Uniti, con il risultato di privilegiare la quantità sulla qualità e rischiare così di deludere tanto le aspettative dei ricercatori quanto quelle delle imprese.
 
L’Ue è il primo produttore mondiale di pubblicazioni scientifiche soggette a peer review con il 29% della produzione mondiale nel 2009 (22% per gli Stati Uniti, 17% per la Cina e 5% per il Giappone), ma perde terreno sui brevetti. Se oggi la ripartizione mondiale dei brevetti internazionali pone Ue e Stati Uniti sullo stesso livello, il tasso di crescita del numero di domande di brevetti presentate negli ultimi anni in Giappone e in Corea del Sud è quasi il doppio di quello dell’Ue. Sulla base delle tendenze attuali, entro il 2020 le quote rispettive di domande di brevetti internazionali potrebbero essere: 18% nell’Ue, 15% negli Stati Uniti e 55% nei primi cinque Paesi asiatici.
 
Se l’Europa non va oltre i proclami resteremo schiacciati tra i numeri asiatici e la qualità americana. Il passaggio dall’economia industriale a quella terziaria sta riducendo la nostra intensità di ricerca e fa trionfare chi si trova sulla frontiera tecnologica come gli Stati Uniti, capaci di attirare risorse umane e finanziarie. I poco più di 7 miliardi di euro spesi dall’Ue in ricerca sono soltanto il 6% del budget comunitario, un sesto di quanto si spende solo per la famigerata agricoltura.
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