Confesso che ho un po’ resistito all’invito di Formiche di ragionare sul tema dell’unitarietà dell’impegno dei cattolici in politica. Se ne parla troppo, e anch’io ne ho parlato più che abbastanza in questi ultimi mesi; e non sfuggo al sospetto che la sovrabbondanza di interventi alla fine saturerà il dibattito senza grandi esiti operativi. “Ne parliamo per parlarne”, secondo l’applicazione di una lucida annotazione di Wittgenstein.
In effetti, ed entro nella sostanza delle cose, il tema trattato in questo numero della rivista è a mio avviso posto in termini pericolosamente anticipatori. Io ritengo, e lo ripeto da tempo, che il mondo cattolico ha una potenza superiore a qualsiasi altra presenza culturale, sociale, politica di questo periodo; ma al tempo stesso ritengo e ripeto che quella potenza non è incanalata e compattata in logiche unitarie, ma si articola in tre componenti diverse e per ora non convergenti: c’è la componente del popolo di Dio che si ritrova nei momenti rituali e comunitari e che solo da poco tempo assume atteggiamenti sociali e culturali di stampo extraecclesiale; c’è la componente delle grandi organizzazioni di rappresentanza e di azione sociale che avvertono la necessità di rinnovare e rafforzare la loro presenza attraverso un riandare alle loro radici di solidarietà umana e cristiana; c’è la componente della diaspora della Dc, con i diversi rami partitici in cui i cattolici fanno azione politica cercando di collegarsi con la realtà ecclesiale, o almeno interpretarne le attese.
Sono queste le tre componenti che, sommate insieme, danno il senso di una grande potenzialità di presenza cattolica nell’area sociopolitica italiana. Ma per ora esse non riescono a saldarsi in una logica unitaria: la prima resta sempre una realtà ecclesiale e spirituale, magari propensa a giudicare i difetti di chi opera nell’arena pubblica, ma restia a “parlare di politica”; la seconda è oggi la più motivata ad entrare nell’arena, ma è oggettivamente troppo differenziata al suo interno per non dover prevedere una complessa opera di amalgama; e la terza è troppo tatticamente articolata (quasi un “ognun per sé”) per poter pensare ad una qualche convergenza sia all’interno della sua dinamica sia nel collegamento con le altre due citate componenti. In questa realtà di fatto è oggettivamente un “pensiero di buona volontà” quello di arrivare presto ad una unitaria presenza politica.
In un precedente intervento avevo scritto che “ci vorrebbe un federatore”, cioè un personaggio capace (come lo fu De Gasperi) di riunire in un solo soggetto le diverse componenti (e culture, e tradizioni) del mondo cattolico; ma avevo anche aggiunto che non vedevo all’orizzonte l’arrivo di un tale federatore. Anche per questo, ma non solo per questo, credo che ci si debba attrezzare ad una lunga marcia, senza creare troppe aspettative a breve termine. Occorrono tempi lunghi e tanta pazienza per le necessarie convergenze.
Occorrono tempo e pazienza per capire quanto siano accettate e partecipate le classiche basi di riferimento, dal concetto di “bene comune” alla dottrina sociale della Chiesa. Ne parlano tutti (fedeli, imprenditori, sindacalisti e politici) ma nessuno esprime per esse oggi una convinta voglia di trasporle in logiche programmatiche, visto che sono considerate troppo fumose, da chi sta dentro le cose.
Occorrono tempo e pazienza per verificare quanto siano oggi variabili le opzioni di comportamento sociopolitico che da sempre sono tipiche della cultura cattolica (la mediazione, il radicamento territoriale, l’impasto interclassista, ecc.).
Occorrono tempo e pazienza per verificare il posizionamento politico che alla fine dovrà essere dichiarato. Penso ad un bel ragionamento svolto recentemente da Ernesto Galli della Loggia sulla “inevitabilità” di un posizionamento di centrodestra di un nuovo soggetto cattolico (perché è là che si può collocare il carattere tradizionalmente moderato dei fedeli ed è perché lì si può entrare con vantaggio nel declino del berlusconismo). Ma saremmo tutti d’accordo?
Se dovessimo del resto seguire questi tre processi dovremmo mettere in agenda ancora più tempo e più pazienza per capire a quale significato storico essi conducono. In parole povere, se dessimo spazio ad essi ci troveremmo con un partito decisamente “guelfo” (dottrina sociale, territorio e interclassismo, posizionamento moderato) in una realtà italiana e internazionale decisamente volta non certo a istanze ghibelline ma certo ad una modernità ampiamente secolarizzata. Potrebbe anche darsi che il mondo aspetti una svolta guelfa, io nutro qualche sospetto in merito e quindi ripeto che occorrono tempo e pazienza per collocare la presenza futura dei cattolici in un mondo che cambia.
Sarebbe troppo pericolosamente facile che il connotato identitario di tale presenza venisse definito dall’esterno, con formule che vengono da altre culture e da altri modelli di comunicazione collettiva; e già oggi si avverte tale periodo (“il nuovo partito cattolico” è cosa da evitare quasi quanto il “partito neoguelfo”). Occorre allora evitare la fretta, occorre avere pazienza. Ma questo non vuol dire che si debba rinviare tutto ad altro giro d’orologio. Anzi la pazienza è la scelta che comporta la decisione di cominciare subito a ragionare insieme: senza “federatori”, visto che non ce n’è, ma con un impegno collettivo aperto a ogni convergenza e anche a qualche trauma.