Era il 21 di maggio, un lunedì, del 2007. Qualche giorno prima, il 12 maggio a Roma, un sabato solare, in Piazza San Giovanni, i cattolici italiani avevano dato vita al Family day. Un milione di persone aveva accolto l’appello lanciato da associazioni, movimenti e altre realtà ecclesiali, per testimoniare insieme il valore della famiglia come è delineata dalla Costituzione italiana, ovvero l’unione di un uomo e di una donna, aperta alla procreazione. Erano i giorni turbolenti dei “Dico” che prevedevano l’equiparazione tra le unioni di fatto (anche omosessuali) e il matrimonio. Quella piazza moderata disse un no così forte e chiaro, da indurre i palazzi della politica a prendere tempo e a far decadere il progetto.
Perché ricordiamo quel 21 maggio del 2007, oggi che i cattolici sono sempre più attenti a quanto avviene sulla scena pubblica e vengono spronati da Benedetto xvi prima e dai vescovi dopo, a tornare in campo per portare aria nuova nella politica? Ebbene, quel 21 maggio, gli organizzatori del Family day, a partire dal Forum delle famiglie, si riunirono nella sede romana sul lungotevere per il bilancio di un’iniziativa destinata a lasciare il segno anche nell’immaginario collettivo. Il giudizio di soddisfazione fu unanime anche per la prova di unità sui valori messa in campo, senza toni aggressivi, con un linguaggio inclusivo, con la capacità mostrata in piazza di farsi portavoce di un sentire comune del popolo. Un sentire positivo che non intendeva negare diritti alle coppie di fatto, quanto conservare e preservare (anche culturalmente) il favor familiae sancito dalla Costituzione.
Quella riunione si concluse con un impegno sottoscritto da tutti i leader ecclesiali del mondo cattolico: “Qualora un giorno il Paese dovesse registrare una qualche forma di emergenza, ciascuno di noi avrà la facoltà di convocare liberamente tutti gli altri”. A distanza di soli quattro anni le circostanze della vita pubblica li vedono nuovamente in campo. L’emergenza Paese è sotto gli occhi di tutti: la crisi economica e finanziaria si è intrecciata indissolubilmente, in un circolo vizioso, con quella istituzionale. E ambedue sono andate a sommarsi a una drammatica questione morale che ha reso “irrespirabile” l’aria del Paese. Dinanzi a questa emergenza volete che i cattolici stiano fermi a guardare, da spettatori, l’implosione dell’Italia?
È accaduto così che un pezzo di quel mondo che ha dato vita al Family day (2007), e prima ancora aveva svolto un ruolo strategico nel referendum (2005) sulla legge 40 in tema di procreazione medicalmente assistita, abbia deciso di agire. In questo frangente si sono mosse le sette associazioni più esposte sul fronte sociale: Cisl, Mcl, Acli, Confartigianato, Confcooperative, Compagnia delle opere, Coldiretti. Ben tre di quei sette promotori (Mcl, Acli e Coldiretti), erano in prima fila sia nel Family day sia nel referendum e tutti gli altri erano simpatizzanti dichiarati. Quello che accade oggi è, dunque, solo un caso? Per i credenti c’è forse lo zampino della provvidenza. Ma anche il deposito fruttuoso di un’esperienza vissuta insieme. Non c’è nulla di meglio, per stimarsi e far crescere l’amicizia e il rispetto reciproci, del lavorare fianco a fianco.
Qui si trova la spiegazione di alcune affermazioni fatte dagli osservatori più attenti del mondo cattolico. A cosa si riferiva, infatti, il professor Andrea Riccardi, storico di vaglia e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, quando, a più riprese ha sostenuto che i cattolici non hanno smesso di incontrarsi, di dialogare, di confrontarsi? Incontri, dialoghi e confronti fattisi sempre più fitti e costruttivi, nel pieno dell’emergenza Paese. E poi, come non ascoltare i richiami incessanti di Benedetto xvi, sin dal 7 settembre del 2008 a Cagliari? Allora evocò la nascita di “una nuova generazione di cattolici impegnati in politica”. Solo tre anni fa, eppure nel frattempo il mondo che conoscevamo è caduto a pezzi. Vecchie certezze dell’occidente hanno lasciato il campo a profonde insicurezze che, sommate a una più generale crisi del sistema mercatista, hanno messo in luce l’inadeguatezza complessiva delle classi dirigenti. E soprattutto la loro incapacità di spiegare ai cittadini elettori che le cose non saranno mai più come prima, che la globalizzazione si è portata via mille sicurezze sociali, che la via del benessere è sempre più impervia. Che, nel caso italiano, significa prendere atto che le risorse pubbliche sono pressoché esaurite, che non è più possibile vivere al di sopra delle proprie possibilità (autentico sport nazionale), che lo Stato dovrà fare molti passi indietro e che il welfare del futuro o sarà sussidiario o non sarà.
Quello che ci accingiamo a vivere è un imponente processo di razionalizzazione che può lasciare sul campo molte vittime, salvo non entrino in campo nuovi attori in grado non solo di spiegare le ragioni dei sacrifici e la necessità di suddividerli equamente, ma di avvalorare con i propri valori di socialità e con la propria integrità personale e di gruppo, l’assoluta necessità di ridisegnare le forme dello sviluppo. Qui, in questo snodo inderogabile della storia, si situa la responsabilità dei cattolici che, in questi anni, non hanno mai smesso di cucire, pazientemente, le maglie della nostra società, di stare là dove (vedi le vecchie e nuove povertà) a nessuno piace stare, di utilizzare parole e gesti lontanissimi dalle pratiche dell’apparire e del gossip. E perciò molto più vicini al popolo di chiunque altro. Persone così, abituate a costruire comunità, possono avere qualcosa da dire e da proporre? Forse sì. A condizione che anche loro facciano rete. A trame larghe e fitte. Come è giusto al tempo della poliarchia. E nello spirito della dottrina sociale della Chiesa.