In questi giorni esce negli Usa This must be the place, il nuovo film di Paolo Sorrentino. Dall’accoglienza che gli verrà riservata dal mercato americano dipenderà la possibile scalata verso i premi Oscar.
Già Muccino si era confrontato con la riserva di immaginario costituita dagli Stati Uniti, ma Sorrentino utilizza il paesaggio americano anche per segnare una svolta nel proprio percorso d’autore.
Nel film, l’ex rock star in disarmo, Cheyenne, in occasione della morte del padre si imbarca in un lungo viaggio attraverso gli Usa alla ricerca del vecchissimo ufficiale nazista che umiliò suo padre, deportato ad Auschwitz.
Sorrentino sembra voler costruire un classico road movie, in cui lo spazio americano, tipicamente vuoto e privo di coordinate, diventa come da tradizione il luogo ideale per la manifestazione del sublime o dello spaventoso. Ma al regista napoletano non interessa il cotè romantico del viaggio, né il suo elemento anarcoide.
Lo spazio in movimento delle lande americane è usato in contrapposizione ai luoghi di stasi, anche mentali, che sono stati gli elementi deputati della sua scrittura cinematografica nei film precedenti. Se c’è una cosa che lega tutti i film di Sorrentino è proprio l’immobilità.
I suoi personaggi sono spesso imprigionati come Minotauri in un labirinto mentale, dal quale è negata una via d’uscita che vada oltre la morte.
L’universo del regista è sempre stato popolato da variazioni sul tema dei luoghi concentrazionali partoriti dalla grande cultura 0del XX Secolo, da Kafka a Beckett. I road movie americani, nel loro elogio della fuga e della perdita,
da questo punto di vista non sono mai stati la negazione dello spazio chiuso del Novecento, ma un suo complemento. Il viaggio risulta spesso in una fuga o finisce nella morte: non risolve mai la situazione iniziale.
Il campo di concentramento adombra perciò la condizione tipica che l’uomo del ‘900 si è cucito addosso, come dimostrano bene gli altri personaggi del regista, da Titta Di Girolamo ad Andreotti. L’Altro metafisico, sociale, psichico, rimane al di fuori della percezione ed è fonte perenne di desiderio e di paura. La rock star di Sean Penn già vive in questo scacco esistenziale: ribelle al padre, è rimasto prigioniero delle ossessioni familiari e dei sensi di colpa. Sorrentino dunque non mette in scena una vendetta, ma un “finale di partita” nel quale il vecchio nazista ha una netta somiglianza con il personaggio di Hamm. I personaggi di Beckett rimangono però prigionieri all’infinito del loro scacco, mentre Cheyenne, punendo e liberando al tempo stesso il nazista, esce dall’Inferno e, come una specie di viaggiatore dantesco, ritorna a casa trasformato dall’esperienza.
Il viaggio non assume più la connotazione disperata della perdita nella morte, ma quello della metamorfosi, in cui la verità dell’esistenza si presenta, almeno per un attimo, all’occhio del regista e del protagonista. Tra l’interpretazione della realtà e la perdita nel sublime, Sorrentino sceglie in questo film la coraggiosa via della contemplazione, in cui l’uomo sente dentro di sé la scintilla di quel mondo che lo affascina. È solo così che il fantasma di Auschwitz può dissolversi.
Indice delle cose notevoli
* Il trailer ufficiale del film
con Sean Penn;
* Testi e interviste sul regista del film: Pierpaolo De Santis, a cura di, Divi & antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Laboratorio Gutenberg, Roma, 2010
* La canzone dei Talking Heads che dà il titolo al film, nell’interpretazione di David Byrne;
* Un cofanetto dedicato al regista:
Paolo Sorrentino Collection, 4 dvd, Medusa Home Entertainment, 2009
* Il regista Paolo Sorrentino intervistato da Fazio a Che tempo che fa;
* Un frammento della celebre opera di Beckett in un’interpretazione classica della Bbc.