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Nessuno è un’isola

Per quanto si fatichi ancora ad ammetterlo, la crisi iniziata nel 2008 lascerà il segno. Come sempre è successo, cesure così profonde non lasciano mai le cose come prima. Faticosamente, dovremo costruire un nuovo modello di sviluppo. A livello locale, nazionale e planetario. Nessuno sa esattamente dove si approderà.
Negli ultimi trent’anni, la libertà è stata pensata prima di tutto come apertura a nuove opportunità. In un’epoca di espansione ogni legame è stato percepito come limitante.
Un tale immaginario, individualista e materialista, nasce ed è alimentato dalla confluenza tra la matrice antiautoritaria di origine sessantottina e quella neoliberista, che valuta il livello di sviluppo in base all’ampiezza delle scelte disponibili. Due matrici culturali molto diverse e per molti aspetti antagoniste, ma che, in realtà, hanno costituito le due ali della stessa tendenza.
 
Dopo tre decenni, di fronte ad un mondo e ad una condizione soggettiva profondamente mutate, è giunto il momento di mettere in discussione questo immaginario.
Di fronte al fallimento del modello di sviluppo dominante, la “libertà dei liberi” va ripensata: la soluzione ai problemi del declino va cercata in una visione integrata e integrale dell’essere umano – vera ricchezza per qualunque sviluppo – nei suoi rapporti con il contesto sociale, istituzionale e ambientale.
La storia lo mostra con chiarezza: le fasi espansive sono quelle nelle quali si creano le condizioni adatte alla piena espressione della spinta che viene dal basso, espressione, in ultima istanza, del desiderio che attraversa l’umano. Lo sviluppo, senza la vita, semplicemente non ci può essere. Come ha scritto Max Weber, lo sviluppo o è morale o non è. Sono la volontà di realizzare, di essere riconosciuti, di contribuire a migliorare, di lasciare in eredità ad “animare” l’agire economico, rendendolo capace di “smuovere le montagne”. Per impegnarsi, però, ci vuole un desiderio più grande.
 
Per questo noi parliamo di “libertà dei liberi” per indicare che la libertà va ripensata una volta che diventa un dato diffuso, qualcosa che abbiamo raggiunto. E in tale contesto, la libertà generativa può offrire un prezioso contributo.
Per generatività si intende quella caratteristica dell’uomo adulto capace di vincere l’opposta tendenza alla stagnazione, che consta nell’improduttivo ripiegamento di sé. Secondo E. Erikson, essa è “la capacità di cura e di investimento per ciò che è stato generato per amore, necessità o caso e che supera l’adesione ambivalente ad un obbligo irrevocabile”.
Dunque, essere generativi significa liberarsi dal dovere e dalla colpa, accettando finalmente il rischio di mettere al mondo qualcosa per cui pensiamo valga la pena spendersi. Che sia orientata verso un figlio, un’impresa, un’opera d’arte, una ricerca, un’azione un’associazione di volontariato, la generatività tira fuori le capacità che pensavamo di non avere, fa guardare con speranza al futuro, ci rende capaci di trasformare una crisi in un’occasione di innovazione.
 
Dunque, la generatività, opposta alla stagnazione, va vista come una tappa dello sviluppo in una fase di maturità. E proprio per questo, è utile usare questo termine per parlare dell’Italia contemporanea che deve trovare il modo per opporsi al declino al quale sembra destinata. Avendo raggiunto una condizione di benessere diffuso, pluralismo culturale, stabilità della democrazia, a partire dagli anni ‘70 si è diffusa l’idea che libertà volesse semplicemente dire libera espressione della volontà individuale. Un’idea potentemente alimentata dal sistema mediatico che ha alimentato la crescita alle nostre spalle ma che ci lascia oggi in eredità una montagna di debiti, una grave frammentazione valoriale, un’elevata disuguaglianza.
La generatività connota, invece, il raggiungimento della maturità da parte di un individuo, di una organizzazione, di una società. Da questo punto di vista, essa costituisce la direzione per uscire dalla crisi attuale.
 
La crisi del desiderio che attanaglia la società italiana è, infatti, prima di tutto una crisi di senso. A chi vive in questo Paese non sfugge la sensazione frustrante che nulla abbia più valore.
Se non si scioglie questo nodo, il Paese non riuscirà a sbloccarsi, dato che, senza il senso, gli strumenti tecnici, organizzativi, finanziari di cui pure disponiamo non riusciranno a raggiungere alcun risultato. Il punto è che l’idea dell’efficienza non rappresenta di per sé una ragione sufficiente per l’agire umano. Anzi, come afferma J. Hilman, la crescita fine a se stessa finisce per “assumere una coloritura cancerosa”.
La generatività, invece, ci ricorda che la nostra libertà può sempre essere spesa per un bene che ci conquista e che decidiamo di servire. E proprio per questo, essa è capace di fermare la sterilità delle nostre società rendendoci capaci di accendere la scintilla della vita (come la sua etimologia suggerisce), di sprigionare nuove energie, di stimolare l’innovazione.
 
La generatività è un’idea di libertà che aiuta a ripensare gli eccessi dell’individualismo di cui la nostra cultura è ammalata. Nessuno è un’isola. Né una persona, né un’azienda, né una istituzione. In un mondo così complesso come quello nel quale viviamo, quello che facciamo e i risultati che otteniamo – come persone, imprese, istituzioni – dipendono dai servizi di supporto e dalle infrastrutture che le circondano; infatti la produttività e l’innovazione vengono fortemente influenzate dai cluster economici (concentrazioni geografiche d’imprese collegate, fornitori, terzisti…), dall’infrastruttura logistica di un determinato territorio e, più in generale, dalla qualità degli asset disponibili nella comunità circostante – come le scuole, le università, l’energia, il capitale sociale, le leggi che tutelano la concorrenza.
 
La generatività ridefinisce, infine, il rapporto con il tempo. In un tempo malato di shortermismo, essa ci ricorda che l’orizzonte della nostra vita non si richiude mai nell’attimo sfuggente. Come già notava Cicerone nel De Senectute, «il contadino, per quanto sia vecchio, a chi gli chiede per chi stia seminando non esita a rispondere: “Per gli dèi immortali, i quali vollero che io non mi limitassi a ricevere tutto questo dai padri, ma che lo trasmettessi anche ai posteri”».
 

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