Non è certo una novità che il teatro in musica italiano sia in serie difficoltà finanziarie (con 300 milioni di euro di debiti accumulati unicamente dalle 13 maggiori fondazioni e bilanci consuntivi in pareggio in meno della metà). L’anno scorso è stato necessario aumentare alcune accise e destinarle al finanziamento del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) e dei teatri lirici in generale. È difficile ipotizzare un’operazione analoga in questo anno di grazia 2012 che, come ha annunciato il governo in carica da novembre, sarà contrassegnato da sacrifici per tutti e in cui la preoccupazione sarà l’equità nell’impostazione e gestione di detti “sacrifici”. In Italia – lo abbiamo sottolineato più volte in questa rubrica – i teatri lirici hanno costi molto superiori e produttività molto inferiore alla media europea.
I costi (alti) e la produttività (bassa) dei teatri hanno, poi, innescato quella che viene colloquialmente chiamata “cattiva stampa” anche a ragione di disfunzioni (scioperi improvvisi di masse artistiche) che alienano il pubblico ormai non più vastissimo della “musa bizzarra e altera”, titolo molto azzeccato di un libro del musicologo Herbert Lindenberger dedicato alla lirica.
Cosa fare per migliorare almeno la reputazione di tale capricciosa “musa”? Indubbiamente, si può porre l’accento – come è doveroso – sull’italianità di questa forma di espressione artistica e sull’apporto da essa nato al nostro movimento di unità nazionale – come fanno, ad esempio, Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali in un libro – O mia Patria. Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi (Dalai Editore, 2011) – che dovrebbe essere consigliato a tutti gli studenti delle scuole secondarie superiori.
L’italianità, però, non è certo l’elemento che induce un governo a decidere in favore dei teatri se la scelta è finanziare palchi, platee e palcoscenici o destinare maggiori somme agli ammortizzatori sociali e occupazionali; oppure un sindaco se sostenere il proprio “teatro di tradizione” o evitare la chiusura di asili nido. I teatri, in effetti, hanno fatto ben poco per migliorare la loro immagine non tanto decantando le virtù della cultura quanto con analisi accurate non solo di come spendono, ma anche di cosa rendono. Analisi economiche puntuali condotte in Germania su teatri tedeschi hanno documentato che in numerose collettività sono stati il motore di crescita e sviluppo.
Non tutti, però, sono stati immobili. Il Rossini opera festival (Rof) ha commissionato anni fa all’Università di Bologna un’analisi dei costi e dei benefici (specialmente in materia di turismo culturale): i risultati erano molto positivi – per ogni euro speso ne tornavano almeno tre alla collettività. Ora sempre il Rof ha prodotto il primo “bilancio sociale” (che io sappia) di un ente o fondazioni liriche; se altri lo hanno fatto, ne inviino copia a Formiche. Il bilancio sociale parte da quello civilistico, ma lo integra con un’analisi degli impatti sulla società allo scopo di stimare il valore aggiunto sociale generato dall’intrapresa. Non è questa la sede per entrare nei dettagli tecnici; vale la pena ricordare che tutte le principali imprese producono da anni “bilanci sociali” seguendo regole specifiche ormai uniformi a livello internazionale. Non è neanche appropriato sottolineare come il bilancio sociale del Rof metta in rilievo aspetti lusinghieri del Festival come contributore di sviluppo alla comunità e di formazione e lavoro a fasce sociali che potrebbero essere a rischio. Il punto essenziale è che i dati presentati (per di più in un modo chiaro ed elegante) consentono di esaminare i molteplici aspetti del Festival e della sua gestione: sono un apporto importante alla trasparenza e se ne dovrebbe tenere conto ai tavoli dove si ripartiscono scarse risorse pubbliche.
In effetti ciascun teatro dovrebbe produrre un “bilancio sociale” per un esame collegiale in sede Fus.