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L’euro in mezzo al guado

Un’Europa a due velocità esiste già da diversi anni, e precisamente dagli inizi degli anni Novanta quando apparve chiaro che la Gran Bretagna non avrebbe scelto la strada dell’integrazione monetaria e che altri lo avrebbero fatto solo in seguito. La divisione tra i Paesi dell’eurozona e i rimanenti dell’Unione a 27 è ormai un dato di fatto. Non sempre gli interessi degli uni sono coerenti con quelli degli altri. Ma ciò che conta è che le più importanti decisioni in campo economico-finanziario in Europa sono ormai prese dai primi, mentre spesso ai secondi non resta altro che adottarle.
 
Con la decisione di rimanere fuori dall’euro, la Gran Bretagna si era già marginalizzata in Europa e quello che è successo nel vertice dello scorso 9 dicembre ne è solo l’inevitabile conseguenza. Il premier Cameron aveva cercato di spezzare la logica per cui i Paesi dell’eurozona (e la Germania in particolare) decidono e poi gli altri si adeguano, chiedendo delle garanzie incluse in un’inaccettabile “lista della spesa” tesa a sottrarre la City di Londra alla crescente sorveglianza e regolamentazione finanziaria europea. Il costo di questa marginalizzazione è al momento piuttosto basso, soprattutto a causa della debolezza del blocco dell’euro, ma la situazione potrebbe cambiare in futuro. In ogni caso a seguito della scelta inglese non sarà possibile modificare i Trattati europei, ma bisognerà scrivere un nuovo trattato internazionale tra i Paesi dell’eurozona e gli altri che vorranno aderire. Se ci fosse stata una modifica dei Trattati vigenti il quadro normativo per fare rispettare le nuove regole sarebbe stato solido e chiaro, mentre con la creazione di un trattato del tutto nuovo (e non condiviso da tutti) rimane aperta la questione della concreta possibilità di farlo rispettare in ogni sua parte.
 
L’entrata in vigore del trattato potrebbe concretizzarsi entro il prossimo maggio-giugno, ammesso che nel frattempo tutti i Parlamenti nazionali abbiano votato a favore. Rimane poi del tutto aperta la questione della ratifica irlandese mediante referendum, opzione cui potrebbero ricorrere anche altri Paesi. Tutto ciò posticiperebbe non di poco l’entrata in vigore del nuovo testo e potrebbe creare forti tensioni sui mercati, soprattutto perché avverrebbe in un periodo di stallo (se non di piena recessione) già oggi previsto per l’eurozona nel 2012.
 
Nell’attuale contesto l’unico modo per generare un recupero di competitività dei Paesi in difficoltà è di puntare su pesanti riforme strutturali e sulla contrazione dei prezzi che una crisi economica prolungata determina. Il fatto poi che non ci sia convergenza economica e che, quindi, i vari Paesi dell’eurozona possano trovarsi in diverse posizioni del ciclo economico, può porre seri problemi all’efficacia della politica monetaria della Bce che potrebbe addirittura risultare pro-ciclica (un innalzamento dei tassi conseguente all’aumento dei prezzi nei principali Paesi europei potrebbe sprofondare nella crisi Paesi periferici dell’eurozona già in difficoltà).
 
Quello che manca nell’accordo del vertice di Bruxelles è una maggiore attenzione al più stretto coordinamento delle politiche economiche dei Paesi dell’eurozona, perché è da questo (e non solo dal coordinamento delle politiche di bilancio) che dipende in ultima istanza la convergenza economica. Quello che finora è stato fatto non appare ancora sufficiente e sarebbe dunque auspicabile che nel testo finale del trattato emergesse qualcosa di più anche in questo ambito. D’altra parte se si guarda solo alle politiche di bilancio, non si potranno evitare in futuro crisi come quella spagnola, dato che Madrid presentava addirittura un surplus di bilancio prima della crisi, mentre i suoi problemi sono scaturiti dallo scoppio della bolla del mercato immobiliare e da un sistema bancario particolarmente fragile.
 
Con riferimento invece alla profondità delle misure adottate, quantomeno nel campo delle politiche fiscali, si può certamente affermare che si è fatto un passo in avanti di portata storica. Il rigore sui conti pubblici (con la parità di bilancio inscritta nelle Costituzioni nazionali) e la capacità di imporre decisioni ai singoli Stati e di attivare sanzioni automatiche sono certamente misure potenti. È tuttavia un peccato che la Germania abbia manifestato una totale chiusura verso gli eurobond, anche nella forma embrionale proposta dalla Commissione nel suo ultimo Green paper.
 
Appaiono inoltre ancora fosche le misure riguardanti l’attuale Fondo salva-Stati, che continuerà a operare fino al 2013, insieme allo European stability mechanism, la cui attivazione è stata anticipata al luglio del 2012. Per volere tedesco la dotazione congiunta dei due fondi non dovrebbe eccedere i 500 miliardi di euro (quindi non un grosso passo in avanti rispetto alle attuali disponibilità). Ma soprattutto non appare chiaro il ruolo della Bce, non solo nella gestione dei fondi, ma soprattutto in merito all’acquisto di titoli di Stato, anche nel mercato primario. Non si sa dunque se – e fino a che punto – la Bce potrà essere coinvolta, mentre si opta per nuove risorse (fino a 150 miliardi di euro, senza alcun contributo britannico) da girare al Fmi per aiutare i Paesi in crisi (i Bric potrebbero contribuire, ma è difficile pensare che lo facciano anche gli Usa). Per evitare la “no bail-out clause” dei Trattati i fondi dovrebbero essere spostati dalle banche centrali nazionali al Fmi e non saranno assegnati a un conto specifico da attivare per la sola Europa (ma ovviamente la presenza della francese Lagarde alla guida del Fondo rappresenta una garanzia in tal senso).
 
Tirando dunque le somme si può concludere che il vertice ha permesso di scongiurare un pericolo imminente procedendo a riunire tanti piccoli pezzi che, tuttavia, non sembrano sufficienti a comporre il puzzle finale di un euro veramente forte. Rimangono ancora diverse incognite. La speranza è che nella versione definitiva del trattato i dubbi vengano chiariti e che nuove misure – soprattutto nella direzione di un maggior coordinamento delle politiche economiche – vengano inserite. Il rischio sarebbe altrimenti quello di creare un altro trattato nato già vecchio, che i mercati costringerebbero ulteriormente a modificare, ma certamente non a costo zero.
 
Tratto da un commentary dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, www.ispionline.it
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