L’adesivo incollato sull’autobus è rosso. Il viso di Putin è circondato da un quadrante di orologio con le lancette puntate verso il basso. Lo slogan, tempo scaduto, non è solo un timbro incollato sulla fronte del primo ministro. Raffigura la crisi del sistema russo. La fragile intesa con cui per un decennio la maggioranza della popolazione ha appaltato il controllo politico alle elite legate all’attuale premier è saltata. Sabato scorso, a un mese esatto dalle presidenziali del 4 marzo, il centro di Mosca brillante di sole e ghiaccio è stato attraversato da cortei splendenti come la luce nelle vecchie lampadine ad arco. Molti i partecipanti, tutti verniciati di entusiasmo. Vero o imposto secondo i differenti punti di vista. Comunisti, liberali, nazionalisti di destra e sinistra. Tutti insieme, uniti dal no a Putin. Poco lontano si agita chi è favorevole al governo. Bisogna far capire che la partita non è affatto persa.
Tante persone una dietro l’altra e tutte di fronte alle forze di sicurezza. Si guardano senza detestarsi consapevoli che nessuno è contro il paese. Ragazzi e ragazze con l’aria esaltata spariscono improvvisamente nei caffè. Tè, cappuccino, birra. Il gelo è una prateria da cui bisogna proteggersi per risvegliare gli ardori. I più anziani ripetono affermazioni vibranti. Eleganti, a volte curiosamente ciniche. Momenti di grandi cambiamenti si dice. Dove? In che modo? si ribatte. Non c´è nulla da cambiare. Putin è la salvezza. No è la rovina. Un volantino chiama alla ribellione “solo il 3 percento del corpo elettorale, solo chi è iscritto ai partiti ha il diritto di candidarsi alla Duma. Non possiamo andare avanti. Non vogliamo tornare indietro. Dobbiamo cambiare”.
Dove porterà questo stato d’animo? Chi guiderà le proteste dopo il 4 marzo quando, secondo la cupa profezia di Sergej Ivanov, nuovo responsabile dell’amministrazione presidenziale, l’intensità delle manifestazioni dovrà “declinare”? Chi vuole certezze non venga a Mosca. Per ora il transatlantico slavo bighellona a caccia del proprio futuro. Nelle Anime morte, il più russo di tutti i testi letterari, Nikolaj Gogol paragona la Russia a una troika furiosa che nel suo assalto all’avvenire supera lo stesso paese. Oggi, dopo tanti esperimenti storici e sociali autodistruttivi, la Russia somiglia più a una metropolitana che passa da un tunnel a un altro in cerca di una luce che forse non esiste. Dalla dittatura alla democrazia e ritorno. Con l’intermezzo di fasi anarchiche.
In questi giorni la Federazione ricorda l’Impero. Con dinamiche identiche in maniera stupefacente a quelle che hanno portato alla rivoluzione del 1917. Anche allora la nazione era divisa in due campi completamente diversi ma entrambi russi.
La provincia, milioni e milioni di poveri, alcolizzati, superstiziosi, ignoranti, con modelli mentali fermi al Medio Evo. Il resto concentrato in città e metropoli. Persone colte e benestanti. Frequentano il mondo e hanno una concezione europea di società e democrazia. I primi conoscono solo un modo per ristabilire l’ordine, il pugno di ferro dello Zar-Stalin. I secondi credono che il proprio paese sia una palude purulenta da prendere per mano e portare verso il sole dell’avvenire. Una società da educare, con istituzioni autoritarie para-asiatiche da sostituire con ordinamenti liberali occidentali. Una pièce a tre che continua a svolgersi sempre con le stesse partiture. Il popolo tace. I giovani intellettuali pretendono sovranità popolare svizzera e dichiarano guerra al proprio governo. Il potere posto davanti al dilemma di dimettersi o reprimere.
Nel 1991 il golpe superato senza spargimento di sangue era stato visto come il simbolo della nuova Russia. Un paese liberato dal ferro dell’oppressione. Un colpo di stato che avrebbe potuto costare la vita a migliaia di persone finito quasi senza morti. Tre giovani, un ortodosso,un ebreo e un musulmano avevano sacrificato la vita per la patria. Una metafora della Russia libera e tollerante. Era invece il primo sangue della nuova Russia come avrebbe dimostrato nel 1993 il Parlamento preso a cannonate dei carri armati del governo. Una strage cui seguivano quelle infinite delle bande criminali. Poi, nel 1995, la guerra cecena. La troika della vecchia Russia si attorcigliava al collo della nuova. E ora?
Putin vincerà le prossime presidenziali. Forse al primo turno, sicuramente al secondo. Dovrà farlo nel modo più onesto possibile e subito dopo cambiare strategia. Dovrà cercare il consenso delle elite finanziarie per dare vita a una politica economica che allarghi il consenso sociale e coinvolga i ceti urbani alla base delle recenti proteste. Compiti difficili attendono la nuova-vecchia leadership della Russia. In gioco non vi è solo la sopravvivenza politica di Vladimir Putin e del suo gruppo ma la stabilità del paese.
La maggioranza della popolazione russa, povera e senza servizi sociali soddisfacenti, chiede reddito, sviluppo dell’edilizia popolare, assistenza sociale efficiente e decenti strutture sanitarie. Putin non è finito, lo dimostrano la manifestazione e le telefonate che lunedì mattina i suoi simpatizzanti hanno fatto alla radio Echo di Mosca. Ma non basterà. Il primo ministro non potrà prescindere dal sostegno dei nuovi gruppi urbani. Solo una società civile “normalizzata” nel senso della modernizzazione, con meno corruzione, un sistema giudiziario funzionante e un mercato del lavoro aperto conquisterà l’opinione pubblica cresciuta lo scorso decennio. Camaleontici per ora i primi passi programmatici del premier. In televisione e su diversi giornali Putin e Medvedev, hanno fatto proprie le critiche dell’opinione pubblica: reintroduzione dell’elezione diretta dei governatore regionali, alleggerimento delle norme per la registrazione dei partiti, riforma della legge elettorale. Troppo poco e, soprattutto, non originale. Le manifestazioni, la loro forza hanno sorpreso il Cremlino. Un disorientamento che dura. Il potere russo non ha ancora capito cosa è avvenuto. Quanto il paese sia cambiato.
Subito dopo le elezioni legislative il capo del governo ha creato un proprio staff elettorale. Alla sua guida Stanislav Govoruchin, regista cinematografico, ex comunista e patriota ultraconservatore. Persona estremamente popolare in Russia ma troppo anziano, 75 anni, per la politica. Il 20 e il 27 dicembre sono rotolate alcune teste del partito di maggioranza. La croce è stata scaricata a uno spento burocrate, il portavoce della Duma Boris Grislov, capro espiatorio di una disastrosa campagna elettore. Famoso per aver detto che in parlamento non si discute, Grislov lascia sostituito da Sergej Naryschkin. L’efficiente capo dell’amministrazione presidenziale è stato a sua volta sostituito da Sergej Ivanov, ex membro dei servizi e uomo di fiducia di Putin. L’apparato di Medvedev passa cosi sotto il controllo del primo ministro. Dalla rappresentanza Nato è rientrato a Mosca Dimitrij Rogozin, ora vice-premier competente per gli armamenti. Un talento demagogico che dal 1992 ha partecipato alla nascita di tutti i partiti di estrema destra russi. Nel 2003 il successo di Rodina, Patria, alle parlamentari del 2003, è stato un campanello di allarme per la leadership russa. L’imprevedibile agitatore nazionalista, sedotto da un posto di rango a Bruxelles, è stato allontanato dal paese. Ora Rogozin dovrà mobilitare l’elettorato di destra a favore di Putin. Difficile pensare che quest’uomo erratico e pericoloso con scarse competenze organizzative e innovative resterà al suo posto dopo le elezioni.
Centrale il significato della rotazione tra Vladislav Surkov e Viacheslav Volodin. Il primo, responsabile dell’amministrazione presidenziale e di tutta la politica interna del paese perde un posto prestigioso per andare a curare la modernizzazione. Al suo posto l’ex vice premier e responsabile dell’amministrazione governativa, Volodin. Un cambio clamoroso. La politica putiniana è stata opera di Surkov. Grande burattinaio capace di creare ideologie dal nulla, manipolare elezioni, fare e disfare maggioranze alla Duma, Surkov è stato la mente della fantasia politica russa. Ora ne paga gli eccessi.
Il carosello di nomine ha diversi obiettivi. Govoruchin e Rogozin, utili per agganciare l’elettorato nazionalista, non resteranno al governo. Ivanov, Naryschkin e Volodin possono essere al contrario essere visti come l’ossatura del nuovo apparato di governo. Naryschkin da efficiente manager della Duma, Ivanov e Volodin come figure chiave dell’amministrazione presidenziale una volta vinte le elezioni. Nessuno dei tre è un pensatore originale o un fantasioso stratega. Quello era il ruolo di Surkov, il cui futuro è però oscuro. Per anni eminenza grigia della politica russa non possiede autorevolezza economica e non ha mai dato prova di competenze manageriali. Difficile pensarlo alla guida di innovazioni di successo o motore della modernizzazione federale.
Le riforme proposte e le nomine effettuate non placheranno un’opinione pubblica urbana sempre più politicizzata e non faranno rientrare proteste sempre più vivaci. Impensabile che Ivanov, Volodin, Rogozin siano in grado di realizzare svolte liberale di qualsiasi portata. Senza dimenticare che la vera incognita della futura politica federale è un’altra. È Vladimir Putin il vero problema della Russia?